IPOCONDRIA

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I criteri diagnostici per l’Ipocondria secondo il DSM-IV-TR(American Psychiatric Association (2000). DSM-IV-TR Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders , Fourth Edition, Text Revision. Edizione Italiana: Masson, Milano.)sono i seguenti:

  • La preoccupazione legata alla paura di avere, oppure alla convinzione di avere, una malattia grave, basate sulla erronea interpretazione di sintomi somatici da parte del soggetto.
  • La preoccupazione persiste nonostante la valutazione e la rassicurazione medica appropriate.
  • La convinzione di cui al Criterio A non risulta di intensità delirante (come nel Disturbo Delirante, Tipo Somatico) e non è limitata a una preoccupazione circoscritta all’aspetto fisico (come nel Disturbo di Dismorfismo Corporeo).
  • La preoccupazione causa disagio clinicamente significativo oppure menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti.
  • La durata dell’alterazione è di almeno 6 mesi.
  • La preoccupazione non è meglio attribuibile a Disturbo d’Ansia Generalizzato , Disturbo Ossessivo-Compulsivo, Disturbo di Panico (Senza Agorafobia e Con Agorafobia), Episodio Depressivo Maggiore, Ansia di Separazione, o un altro Disturbo Somatoforme.

Specificare se:

Con Scarso Insight: se, per la maggior parte del tempo durante l’episodio in atto, la persona non è in grado di riconoscere che la preoccupazione di avere una malattia grave è eccessiva o irragionevole.

 

L’ipocondria è la paura immotivata della malattia ed il termine deriva dal greco antico “sotto le coste”, la sede abituale del dolore addominale. Rappresenta il timore ancestrale della malattia e della morte, timore che, però, viene vissuto in maniera angosciosa ed ossessiva.L’ipocondria ricorre nel 2-3% della popolazione e si presenta più frequentemente negli anziani e nelle donne, soprattutto se queste ultime sono colpite anche da depressione. La paura della malattia è una convinzione quasi irremovibile e penosa per chi la sopporta. Non si esce in maniera semplice dall’ipocondria, non bastano esami ripetuti per tranquillizzare il paziente delle sue buone condizioni di salute fisica dal momento che questo tipo di paura è la manifestazione di molti altri problemi emozionali che si focalizzano sul corpo. Possono essere problemi esistenziali o di tipo ansioso depressivo dove un po’ inconsciamente c’è una scelta del linguaggio del corpo per esprimere un certo tipo di disagio o di paura. Però, anche se per un lungo periodo non si presenta realmente nessun disturbo organico, l’ipocondria, come tutte le forme di tipo somatico, può causare più facilmente un circuito fra psiche e soma con l’emergere di una malattia reale con il trascorrere degli anni. Un po’ come se l’aspetto psichico facilitasse la comparsa di un disturbo organico vero e proprio.

Fra le tante paure che ricorrono nell’immaginario delle persone colpite da queste fantasie, quella che l’ipocondriaco teme di più è il tumore, soprattutto all’intestino, subito seguito dalla paura dell’infarto. Il timore è che la neoplasia non si veda nemmeno con l’endoscopia e che non si riesca a scoprire con le indagini diagnostiche anche se più volte ripetute.
Quello che lo differenzia dal normale timore di essere affetti da qualcosa di grave è che la paura non si manifesta sporadicamente ma in modo sistematico e protratto per mesi o anni.
Il malato così acquista uno stile di comportamento che lo condiziona nelle abitudini e nelle relazioni sociali.
Sempre intento a cogliere ogni minimo sintomo, vive in modo angosciato, ascoltando moltissimo il suo corpo, e così sensibilizzato la sua soglia del dolore si abbassa. Avverte con maggiore intensità gli stimoli organici; quindi quello che per una persona normale può essere un banale mal di pancia per l’ipocondriaco diventa un dolore realmente insopportabile. Nei comportamenti sociali crea dei rituali. Condizionato dal sospetto che alcuni alimenti possano nuocergli elimina senza ragione determinati cibi o fa delle diete rigide.

La guarigione, peraltro non è semplice né breve. E’ possibile certo, ma non tanto con la somministrazione di farmaci: l’approccio terapeutico migliore è fornire alla persona una chiave di lettura diversa di questi disturbi. Bisogna comprendere, secondo la psicanalisi, il significato simbolico ed inconscio della sintomatologia fisica. Ad esempio una tachicardia può rappresentare in maniera latente un disagio affetivo, le vertigini potrebbero rappresentare un’insicurezza profonda, ecc.
Un percorso terapeutico è utile anche a chiarire tali connessioni.
E’ utile anche fargli comprendere che per avere l’attenzione del medico o dei familiari non è necessario che lui manifesti una malattia. Il medico può occuparsi di lui e raccogliere il suo messaggio di disagio anche se viene espresso in maniera diversa non fisica. I farmaci lo aiutano quando ci sono altre patologie di base come la depressione. Generalmente vengono usati gli ansiolitici che riducono la frequenza di lamentele. Ma le molecole che funzionano meglio sono gli antidepressivi, di ultima generazione che hanno pochi effetti collaterali, proprio perché questi ultimi sono tollerati malissimo da queste persone, fornendo ulteriori conferme agli esasperati timori.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

 

IMPULSIVITA’ PATOLOGICA: DISTURBI DEL CONTROLLO DEGLI IMPULSI

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E’ uno dei 15 Gruppi di disturbi psichiatrici riconosciuti dal DSM IV . La caratteristica fondamentale dei disturbi del controllo degli impulsi è l’incapacità di resistere ad un impulso, ad un desiderio impellente, o alla tentazione di compiere un’azione pericolosa per sé o per gli altri. Nella maggior parte dei disturbi descritti in questa sezione, il soggetto avverte una sensazione crescente di tensione o di eccitazione prima di compiere l’azione, e in seguito prova piacere, gratificazione, o sollievo nel momento in cui commette l’azione stessa. Dopo l’azione possono esservi o meno rimorso, autoriprovazione, o senso di colpa. In questa sezione sono inclusi alcune dei seguenti disturbi:

  • disturbo esplosivo intermittente , caratterizzato da saltuari episodi di incapacità di resistere agli impulsi aggressivi;
  • cleptomania , caratterizzata dalla ricorrente incapacità di resistere all’impulso di rubare oggetti che non hanno utilità personale o valore commerciale;
  • piromania , caratterizzata dalla abitudine ad appiccare il fuoco per piacere, gratificazione, o alleviamento della tensione;
  • gioco d’azzardo patologico , caratterizzato da un comportamento maladattivo ricorrente e persistente di gioco d’azzardo

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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TESTIMONIANZE

Salve,
Sono un uomo di 29 anni, vivo nel nord italia e sono un ingeniere informatico.
Da sempre, quando mi arrabbio, sopratutto per motivi futili, sento il bisogno di romprere oggetti, o mi sfogo tirando un pugno al muro, o borbottare il mio schlero a qualcuno attorno a me (parenti, fidanzata).
Non succede sempre, ma vorrei imparare a dominare completamente la mia rabbia in situazioni di stress.
Nel corso degli anni ho imparato a controllare parzialmente queste situazioni, ma spesso la reazione violenta (sempre su oggetti mai su persone per fortuna) esce prima che riesco ad intercettarla.
Borbottio: 
In auto, tutto il tempo, da quando ci metto piede a dopo che ho parcheggiato.
Ogni situazione avversa, che va dal vecchietto lento che non parte al semaforo fino a quello che ti si infila di forza davanti facendoti frenare di colpo, genera un borbottio… (o insulti random all’altro conducente, con gesti eccetera…)
Quando sono con la fidanzata, (che detesta il mio borbottio), spesso ma non sempre riesco ad intercettare questi pensieri prima che vengano convertiti in parole, e quindi tenermeli per me.
A volte invece riesco addirittura ad evitare di fare questi ragionamenti e capire che se il vecchietto ha frenato non succede nulla… e sorvolare la cosa come farebbe chiunque…
Rabbia + spaccare roba:
videogiochi: mio hobby da quando ho 8 anni… l’errore ripetuto, o l’errore per sbadatezza che ti fa perdere la partita, puo’ dopo qualche volta portarmi a tirare un pugno alla tastiera/muro + cantilena di bestemmie etc…
combo: le combo le definisco come una concatenazione di piccoli eventi che portano a una schlerata.
esempio: mi cade un bicchiere, raccogliendolo sposto la tovaglia e rovescio un vaso il quale bagna un foglio che mi serviva per qualsiasi motivo, etc…
questi eventi mi fanno ribollire il sangue… e spesso mi fanno esplodere in uno schlero, piuttosto che una risata per l’assurdita’ della scena…

Queste situazioni si manifestano quando sono da solo, o circondato da parenti stretti e solitamente per motivi futili.
In periodi di stress generale (da lavoro ad esempio) sono piu frequenti.
Quando capita, il mio cane scappa nell’angolo piu remoto della casa, idem i parenti…
la cosa che mi fa calmare ed evitare di scoppiare in rabbia é confrontarmi col problema, vedermi da fuori e “sentirmi scemo” per quello che sto facendo…
cosa posso fare? ci sono esercizi, tecniche per migliorare?
mi serve aiuto esterno?
La ringrazio anticipatamente per un eventuale risposta.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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AUTOLESIONISMO

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Ancora quella sensazione. Ti svegli e vedi sangue sulle lenzuola e sul tappeto. Libri e pezzi di carta sparsi in tutta la stanza. Mobili rotti. Quel pizzicore familiare sulle braccia, sul torso. La faccia è sbavata di rosso. Stava andando così bene: tredici giorni dall’ultima volta. Ti senti intorpidito, confuso, mezzo ubriaco, stupido. Hai appena le forze per alzarti: non mangi da tre giorni e hai perso molto sangue. Che cosa stai cercando di dimostrare? La cameriera entra e vede i fazzolettini macchiati di sangue sul pavimento, ti guarda non è sicura di capire bene. Cerchi di ricotruire esattamente quello che è successo durante la notte…

Hai lavorato fino a tardi, volevi uscire e rilassarti, divertirti. Non c’era nessuno. Sei andato all’enoteca, hai comprato da bere, ti sei seduto nella tua stanza, ascoltando la tua musica preferita, violenta e deprimente. Ti accorgi che qualcosa, dentro, sta traboccando. Ti sembra di essere sul punto di esplodere da un momento all’altro. Ti si riempiono di lacrime gli occhi, cominci a piagere. Il pianto si trasforma in grida, lamenti, urla. Cerchi di trattenerti. Cominci a prendere a calci la porta. Butti la roba in giro per la stanza, fuori dalla finestra. Non riesci a calmarti. Non sai neppure che cosa ti abbia ridotto in questo stato. Ti pianti le unghie nella pelle del polso. Non senti niente. É come se stessi guardando un film su qualcun’altro, non sei tu. Ti togli la camicia, ti guardi allo specchio. Odio, disgusto, frustrazione, rabbia, rimorso. Quasi come in un rituale, senza nemmeno pensare a quel che fai, prendi la lametta… sangue che gocciola. Ci sfreghi su qualcosa di antisettico, lo rifai, fino a quando sei calmo, soddisfatto. Spalmi sangue in giro. É brutto, ma il sangue è reale, è umano, ti fa sentire bene! Al tempo stesso, provi dolore, te lo meriti. Lo racconti a qualcuno.

Ti dicono che sei un manipolatore, che cerchi attenzione. Ci credi. Serve solo a farti stare peggio. Alcuni pensano che tu sia malato, o matto. Poche persone capiscono ma sono ancora troppo preoccupate, scioccate dalla cosa. Qualcuno pensa che tu abbia tendenze suicide. Non è vero.

Tagliarsi non è un modo per cercare attenzione. Non è una manipolazione. É un meccanismo per affrontare i problemi, punitivo, gradevole, potenzialmente pericoloso, ma efficace. Mi aiuta a sopportare le forti emozioni che non so come gestire. Non ditemi che sono malato, non ditemi di smettere. Non cercate di farmi sentire in colpa, mi accade già. Ascoltatemi, sostenetemi, aiutatemi.

Dal libro “Un urlo rosso sangue” di Marilee Strong

 

L’autolesionismo (il termine tecnico è Repetitive Self-Harm Syndrome Sindrome da auto-lesionismo ripetuto)viene in genere definito come il tentativo di causare intenzionalmente un danno al proprio corpo, lesionandosi in modo di solito abbastanza grave da provocare danni ai tessuti o agli organi. E’ considerata una vera e propria patologia. Le persone affette da questo disturbo si fanno del male in diversi modi: tagliandosi con una lametta, bruciandosi con una sigaretta, graffiandosi, strappandosi i capelli, sbattendo contro qualcosa, ecc..

Forme di autolesionismo.
Si possono identificare, grosso modo, tre forme di autolesionismo:

  • Automutilazione grave (molto rara), che produce un danno irreversibile ad un parte del proprio corpo, ad esempio uno sfregio permanente in viso.
  • Automutilazione leggera (la più diffusa) che si manifesta col tagliarsi, bruciarsi, strapparsi i capelli, fratturarsi un osso, urtare, ed ogni altro metodo usato per ferirsi.
  • Automutilazione latente (la più subdola) perchè si nasconde in determinate forme di dipendenza e disagio come la tossicodipendenza, la bulimia, l’attività fisica eccessiva. Esse possono considerarsi forme poco manifeste, ma molto insidiose.

Chi è l’autolesionista:

Può colpire tutti, indipendentemente dall’età, dal grado di istruzione e dalla classe sociale, anche se sono in prevalenza donne, forse, a causa di fattori sociali. Tradizionalmente, agli uomini viene permesso di esprimere la propria aggressività, alle donne viene invece insegnato a reprimerla o quando questo non è più possibile, a rivolgerla verso se stesse.
Le donne, spesso, oltre all’ autolesionismo presentano disturbi del comportamento alimentare come anoressia e bulimia. Alcune ragazze di fronte ad un momento di malessere reagiscono alternando comportamenti bulimici (abbuffate seguite da vomito o abuso di lassativi) a quelli autolesivi.
Inoltre l’autolesionista, a volte, presenta depressione, con pensieri di tipo suicida. In alcuni casi, il malessere è così forte che la persona sente che o si taglia o si suicida.
Non si piace, odia il suo corpo, non ha fiducia in se e neppure negli altri.
Molti degli autolesionisti tendono ad essere perfezionisti, incapaci di gestire e di manifestare verbalmente intense emozioni. Non si piacciono, odiano il proprio corpo e possono avere gravi sbalzi d’umore. È possibile, talvolta, che abbiano subito abusi sessuali o violenza psicologica nell’infanzia.
L’autolesionista non rappresenta un pericolo per la società perché la violenza è sempre e solo rivolta verso di sé, mai verso altri. Perché? 
Vari possono essere i motivi.

  • Per scaricare lo stress: autolesionarsi ed il dolore fisico correlato placano lo stress. Tutti il disagio interiore che non si è in grado di gestire viene tramutato in sofferenza fisica, quindi più facilmente gestibile e più reale della sofferenza emozionale che è impalpabile. Per un po’ ci si occupa solo del dolore fisico, distogliendosi temporaneamente da quello interiore
  • Per mostrare agli altri che si sta davvero soffrendo, offrendo loro qualcosa di concreto e di comunemente accettato come “dolore”. Così si esiste agli occhi degli altri. Le cicatrici sulla pelle rendono visibile esteriormente la sofferenza che si ha dentro, è un modo per comunicare agli altri il proprio dolore .I comportamenti autolesivi sono una richiesta di aiuto.
  • Ci si sente talmente morti dentro, talmente apatici dal ricercare nella sofferenza fisica una prova che si è ancora vivi.Non si è in legame con il proprio corpo e il dolore fisico è l’unico modo che si ha per sentire di esistere, per percepire il proprio corpo.
  • Come sostituto di un desiderio di suicidio.
  • Per punirsi di proprie azioni o sensi di colpa .

Io amo riassumere le possibili cause di un comportamento autolesionista in questa frase: “Si preferisce provare un dolore fisico per non provare un più profondo e doloroso dolore interiore”

Indicazioni utili:

  • Non isolarsi ma far presente la problematica ad una persona a noi significativa al fine che possa diventare un “sos” nei momenti di crisi acuta.
  • Nel momento in cui si manifesta la crisi acuta svolgere un’attivita “lesionistica” rivolta ad un oggetto esterno, quale “picchiare” un oggetto morbido al fine di “scaricare” la rabbia.
  • Uscire immediatamente di casa .
  • Nei momenti non di crisi acuta praticare un’attività fisica che “svuota” in qualche maniera della rabbia accumulata.
  • Esprimere la propria rabbia anche attraverso qualche forma artistica, come dipingere e disegnare ad esempio.

Ma soprattutto non bisogna vergognarsi di ammettere di essersi volutamente feriti, per timore di non essere capiti, di essere giudicati negativamente o di essrere considerati dei pazzi. Invece non c’è motivo di cui vergognarsi, sia perché gli autolesionisti non sono pazzi, sia perché tale fenomeno è più comune di quanto si creda, in forma più o meno patologica .
Se la buonavolontà personale di combattere l’autolesionismo non produce significativi miglioramenti bisogna chiedere, senza esitazione, timore e vergogna, aiuto ad un’esperto.

LEGGI LE TESTIMONIANZE SULL’AUTOLESIONISMO

LEGGI ANCHE AUTOLESIONISMO ONLINE

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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UN APPROCCIO CORPOREO AI DISTURBI DA ATTACCHI DI PANICO

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Capita sempre più spesso di leggere articoli e testi che si occupano di panico e dei suoi aspetti fobici. Finalmente il DAP è entrato nella categoria delle disfunzioni e dei disturbi considerati “veri” e le persone che ne soffrono non devono più temere di essere accusati di simulazione.
Di questa accusa quasi tutti i “dapisti” hanno fatto esperienza e solo poche persone, forse quelle di “ultimissima generazione”, sono riuscite a scamparla. Finalmente il DAP è diventato di comune comprensione; gli stessi portatori ne riconoscono le manifestazioni e non corrono più il rischio d’essere guardati male e accusati di volere solo attrarre l’attenzione.
Il “Disturbo da Attacchi di Panico” è un disturbo molto giovane e solo in questi ultimi anni gli psicologi e gli psichiatri si stanno confrontando con la sua dinamica, le sue espressioni e le sue remissioni. È talmente giovane che a volte è ancora difficile definirne i confini tanto che le sue espressioni più immediate, mancamenti, vertigini, tachicardia, tremito, paura di perdere il controllo, senso di soffocamento ecc., sono spesso insufficienti per una corretta diagnosi differenziale.
Come nella consulenza per la diagnosi, anche nell’ambito della cura si sta ancora cercando di capire quali possono essere i metodi più efficaci. Per lo stesso disturbo ad alcuni si ritiene necessario prescrivere o suggerire l’intervento contemporaneo di diverse figure professionali (medico, psichiatra, psicologo, psicoterapeuta); per altri può essere sufficiente il gruppo di Auto Mutuo Aiuto. Per altri ancora il gruppo può rivelarsi insostenibile.
Questa variabilità induce a pensare che il trattamento del DAP è ancora effettuato con metodi “sperimentali”, per lo meno nel senso che non è ancora stata detta nessuna parola definitiva sulla genesi, sullo sviluppo, sulla remissione e sui legami che uniscono questi tre aspetti o che portano dall’uno all’altro. Quello che sembra confermato è che il DAP è innanzi tutto un “disturbo relazionale”.
Quest’ultima ipotesi si basa sul fatto che alcune manifestazioni sintomatiche si legano ad eventi sociali (agorafobia, fobia sociale, paura della solitudine o della frequentazione di luoghi solitari) e sul fatto che le stesse manifestazioni sono così eclatanti, e i portatori le usano in maniera tale, che sembrano proprio profilarsi come richieste d’aiuto.
Nella sua dinamica espressiva e comportamentale, il disturbo di panico obbliga alla relazione; obbliga a quelle richieste che a volte, per l’evidente assenza di traumi, vengono interpretate come richieste di attenzione, se non proprio come atteggiamenti esibizionistici. Ignorare il senso relazionale di questi sintomi comporta un rischio molto importante sia per chi si occupa della cura sia per chi vive l’esperienza del DAP; il rischio cioè di lasciarsi interessare e preoccupare solo dalla remissione sintomatica col pericolo di eliminare, col sintomo, uno degli strumenti più efficaci di relazione e di denuncia del corrispondente disturbo.
L’attenzione al sintomo è un atteggiamento che noi terapeuti assumiamo a volte perché costretti dalla gravità della sofferenza delle persone. Altre volte magari ci viene spontaneo perché fa parte della nostra indole, del nostro modo d’essere e l’eliminazione della sofferenza è uno dei motivi per cui abbiamo scelto questo mestiere. Altre volte ancora, sono gli stessi pazienti a chiedere d’essere liberati dal sintomo e questo può sollecitare, nel terapeuta, una strana tensione che si mischia al bisogno di creare un’alleanza che può tornare utile allo stesso paziente. Altre volte invece può capitare di vivere la sopravvivenza del sintomo come una dimostrazione della nostra inefficacia e possiamo vivere il confronto terapeutico come una sfida narcisistica.
Insomma, anche noi terapeuti siamo figli di questi tempi e il tempo che viviamo è ancora il tempo della medicina classica che si proietta nel nostro immaginario stimolandoci all’onnipotenza. In questa fantasia un medico “bravo” toglie il dolore e la sofferenza, e il sintomo, preso come il nemico, rischia d’essere scambiato per il disturbo anziché essere visto per quello che è: un indicatore della presenza di un disturbo relazionale.

Le “Terapie Corporee” non sono estranee a queste premesse ma, poiché il comportamento è innanzitutto finalizzato alla comunicazione, la sua osservazione le induce naturalmente all’attenzione relazionale.
Fino a qualche anno fa non era ben chiaro il tipo d’intervento che queste terapie perseguivano, o non lo era per i non addetti ai lavori. Gli aspetti più conosciuti erano quelli tecnico operativi che si basavano, e si basano tuttora, sulla lettura delle azioni, dei gesti, atteggiamenti, posture e comportamenti.
Attualmente molti aspetti si sono chiariti ed è diventato evidente che occuparsi degli aspetti corporei, non vuole dire che vengono trascurati quelli dinamici e psicologici.
Le psicoterapie corporee hanno privilegiato un approccio al “corporeo” preoccupandosi di ciò che è visibile dell’individuo. Considerano il corpo, che si muove nell’ambiente, sempre in relazione ad altri e a situazioni “altre” e come espressione dell’organismo complessivo, perciò anche di ciò che è meno visibile.
L’atteggiamento corporeo, quindi la gestualità, la postura, la mimica, il modo di camminare, di parlare, di guardare sono considerati comportamenti tesi alla relazione, alla comunicazione e sono visti come eventi comportamentali complessivi di un organismo che tende ad esprimersi nella sua totalità. Queste espressioni sono finalizzate a realizzare una relazione anche quando, e se, il comportamento assume aspetti che definiamo disturbati e/o patologici. Il corpo “è” in quanto relazione, quindi anche il movimento nello spazio, di una persona in relazione all’altra, è “linguaggio corporeo” e perciò ogni manifestazione comportamentale, e ogni movimento, è un tentativo di comunicazione e l’espressione del bisogno di relazione.
Secondo il punto di vista corporeo, quando osserviamo il comportamento di un organismo e lo consideriamo complessivamente, dobbiamo riconoscere un’unica identità alle sue diverse funzioni e dovremmo conservare questo atteggiamento sia quando tentiamo di formulare un’interpretazione delle sue funzioni mentali, sia quando ne osserviamo i comportamenti esibiti.
Riconoscere l’identità delle funzioni di un organismo prevede di considerare la contemporaneità del loro attuarsi nelle diverse espressioni, senza stabilire ordini gerarchici che ne compromettano l’integrità funzionale.
Un ulteriore vantaggio del considerare l’organismo umano integrato, olistico nel senso di Kepner (Kepner, 2006), è che diventa maggiormente possibile comprendere l’effetto delle varie attività espressive. Per esempio le attività artistiche, quelle ludiche e a volte anche la prescrizione di passeggiate, la frequentazione di palestre di ginnastica e ballo, circoli sportivi, centri benessere, luoghi di socializzazione, possono essere utili ausili per la risoluzione di situazioni problematiche come quelle di cui ci stiamo occupando. Anzi a volte un lavoro teso solo alla comprensione e alla modifica degli atteggiamenti mentali, delle dinamiche e delle resistenze, con l’unico uso del metodo verbale, si può rivelare più difficoltoso, più lungo e meno efficace di un altro che si pone in un’ottica integrata, in cui corpo e mente sono considerati un’unica cosa e le attività ludiche e socializzanti possono sono viste anche come prescrizioni terapeutiche. Per questo motivo il metodo delle “Arti Terapie”, molto vario ed eclettico, a volte viene considerato un metodo corporeo.

A livello di vissuto corporeo, l’attacco di panico è il sintomo del fallimento dell’integrazione della percezione sensoriale, cinestesica e vegetativa con la vita emotiva e con la capacità di descrivere e nominare questi eventi. Spesso la verbosità lamentevole sostituisce la capacità di verbalizzazione.
Da un punto di vista dinamico possiamo leggervi il fallimento, o la deliberata volontà, anche se inconscia, di attaccare “qualsiasi cosa venga (dal paziente) percepita come legame tra due oggetti.” (è doveroso il riferimento a Bion anche se questo autore non riferisce il suo “attacco al legame” ai disturbi di panico: Bion, 1970, pag. 144). L’aspetto più interessante, comune sia al punto di vista dinamico sia corporeo, può essere considerato l’elemento “separazione” degli organi, delle funzioni e delle emozioni, che consente di guardare all’approccio integrato come a un terreno privilegiato che, non rinnegando il corpo, nemmeno lo elegge ad unico rappresentante dell’organismo.
Per chi lavora con il corpo, la crisi di panico è l’aspetto evidente (sintomatico) del fallimento della capacità di coordinare le varie funzioni che, nel corpo, replicano quanto avviene nella mente. Cercare una soluzione unicamente “mentale” o unicamente “corporea” non è sufficiente per individuare e sanare la fonte da cui origina il problema e allora, esercizi di coordinazione, proposti contemporaneamente alla disamina psicologica dei vissuti emotivi e sensoriali, per mezzo della verbalizzazione, possono far parte di momenti privilegiati per la comprensione, la fiducia e l’acquisizione della competenza. Questi elementi, comprensione, fiducia e competenza, riscoperti nel proprio corpo, si possono rivelare capaci di indurre anche la risoluzione sintomatica, come già considerato e descritto nell’articolo consultabile all’indirizzo:
In presenza di un attacco di panico siamo davanti ad un vissuto più o meno destrutturato. Le sensazioni di disintegrazione si accompagnano ad impressioni di impotenza e paura di non poter governare le proprie parti corporee, organi e sistemi (muscolare, respiratorio, cardiaco). Evidentemente i due termini, non integrazione e disintegrazione, che rappresentano un’identica realtà, di fatto si accompagnano a due fantasie e due vissuti diversi. Tendiamo a rappresentarci la “non integrazione” come un insieme di elementi che hanno in sé la possibilità di integrarsi, mentre nella “disintegrazione” siamo portati a rappresentarci un evento che, oltre a rompere l’equilibrio degli elementi, li ha anche svuotati della loro capacità di reintegrarsi. Probabilmente questa possibile dinamica è riconducibile alla proiezione del vissuto aggressivo primario, del bambino che eravamo, che come risposta al fantasticato comportamento aggressivo e/o inadeguato di chi non si prendeva cura “di noi come desideravamo”, attua una ritorsione tesa a distruggere tutto ciò che tende ad unire e a svuotare i singoli elementi del potere aggregante. Atteggiamento da cui deriva anche il rischio depressivo.
Sintetizzando possiamo dire che le persone sofferenti di DAP, pur desiderando e cercando persone e situazioni in cui potersi abbandonare (rilassare e amare), vivono i momenti di regressione come pericolosi; hanno difficoltà a “lasciarsi andare” e hanno disimparato a riconoscere le proprie emozioni e sensazioni (scotomizzazione).
Allora possiamo ipotizzare che queste persone, soggette a vissuti di destrutturazione improvvisi e immotivati, dal punto di vista terapeutico dovrebbero a) essere aiutati a ridare agli elementi che compongono il loro “Io” il senso aggregante (collante), b) essere condotte a riprendere contatto con la loro capacità di coordinarsi e di integrarsi psicofisicamente (riavere fiducia in sé); c) dovrebbero imparare a riconoscere le emozioni e legarle alle sensazioni. Per fare tutto questo dovrebbero essere aiutate a riaccostarsi ai propri personalissimi modi di funzionare e a rispettarli nel loro senso dinamico (cioè per quello che significano nell’economia psichica di ognuno).
Dal punto di vista della psicoterapia corporea, per realizzare questi obiettivi è inutile ricorrere alla prescrizione o alla persuasione perché i sentimenti che accompagnano questi eventi sono ampiamente colorati dalla sfiducia, sia in sé stessi, forse anche alimentata dalle svalutazioni subite nel corso degli anni, sia nelle persone del cui affetto si è sempre creduto (spesso si tratta dei genitori da cui ci si sente traditi). La mancanza di fiducia nei confronti delle prime persone care, col tempo è diventata sfiducia in qualunque altra persona anche solo suscettibile di diventare cara, a causa di una sorta di generalizzazione rancorosa che si estende a tutte le persone che si offrono di aiutare e che, così facendo, si candidano a diventare care.
Allora anche il terapeuta rischia di essere investito da questa generalizzazione che risulta ancora più efficace se inattesa.
Per l’approccio corporeo un atteggiamento terapeutico che tenga conto di questi elementi può essere quello di: 1) considerare il corpo e la psiche un’unica cosa, 2) considerare l’organismo composto da organi e sistemi 3) provare ad indurre la parte cosciente, quella che a volte è definita Io-corpo e che è un’istanza tra lo psichico e il corporeo (Ruggieri, 2001), a prendere contatto gradatamente con queste parti, che sono sia psicologiche (mentali), sia fisico/corporee, sia emozionali e 4) integrare queste parti promuovendo e alimentando la fiducia, con graduali esperienze di equilibrio ed integrazione.
La psicoterapia corporea, che ha sempre guardato all’organismo umano come a un tutto integrato, nasce dalle osservazioni di W. Reich. Questo autore è stato uno dei pionieri dell’approccio integrato alla persona ma vicende storiche hanno un po’ adombrato il suo lavoro che, fortunatamente, oggi si sta riabilitando grazie alla Bioenergetica, alla Vegetoterapia, alla Gestalt, all’approccio Centrato sulla Persona e alle altre scuole e associazioni terapeutiche che fanno del corpo il punto focale della loro attenzione.
Originariamente Reich si accorse che alcune nevrosi tendevano alla remissione in seguito all’esecuzione di piccoli esercizi corporei che, indagati anche psicologicamente, ripristinavano una discreta funzione organismica. (Reich, 1977; De Marchi, 1981)
Senza dilungarci sugli aspetti storici ed evolutivi delle tecniche che da questo autore derivano, vediamo come si può proporre, nel caso del DAP, un approccio che tenga conto sia dell’aspetto corporeo sia di quello psicologico.
Nell’osservare una persona fortemente in ansia o in stato di panico, capita di restare colpiti da alcune cose in particolare: per esempio dalla difficoltà respiratoria, dal soffocamento, dalla tachicardia, perdita degli occhi, perdita delle gambe, sudorazione più o meno profusa, ecc. (per un piccolo esempio ci limitiamo solo a pochi elementi pur sapendo che, in una realtà terapeutica, gli elementi corporei/psichici da prendere in esame sarebbero maggiori). Con una persona che va in apnea quando è in ansia, decidiamo di occuparci della funzione respiratoria. Una volta indagata nei suoi aspetti somatici e psichici (a livello toracico, addominale e diaframmatico) procediamo alla sua rieducazione. Allo stesso modo ci orientiamo per l’organo della vista (gli occhi). Prima indaghiamo tutti i movimenti e poi stimoliamo l’utilizzo di tutte le funzioni, fino ad arrivare ad una performance complessiva. Dopo di ciò si può procedere con esercizi che “legano” il movimento degli occhi a quello respiratorio. Per ogni movimento discreto, di ogni funzione e per ogni organo e poi per la funzione complessiva, va svolta l’indagine psicologica. In questo modo realizziamo nel corpo le dinamiche della fiducia e dell’integrazione riproponendo il confronto con i sentimenti conflittuali e, nello stesso tempo, produciamo il trasferimento della fiducia dalla terapia, e dal terapeuta, alle proprie competenze e al Sé, così da spostare il fuoco della fiducia dall’oggetto al soggetto (dalla fiducia degli/sugli altri alla fiducia di/in sé stessi).
Abbiamo detto perdita degli occhi, delle gambe, eccetera. In realtà non “perdiamo” i nostri organi; però ciò che soggettivamente viviamo è che l’ansia induce degli stati parossistici, nel nostro corpo, tali per cui la sensazione predominante diventa proprio quella di non essere più padroni dei propri organi. È come se all’improvviso questi si rivelassero posseduti di vita autonoma e fossero separati dall’Io. L’impressione del soggetto è quella di vivere una spoliazione: non ha più il controllo delle parti che lo compongono.
Nello specifico degli occhi e delle gambe, la sensazione è che “Io” non sono più presente negli occhi che, in tal modo, non sono più capaci di soffermarsi sugli oggetti esterni e svolgere la funzione del vedere e del guardare.
Le gambe ugualmente vengono meno e si perde la capacità di tenere una tensione isometrica tale da governare tutte le funzioni.
Sappiamo che le gambe ci sostengono contro l’attrazione gravitaria. Ci permettono di spostarci nello spazio; con esse camminiamo ma anche calciamo, corriamo, sentiamo la terra, sosteniamo il corpo e, con i piedi, siamo anche capaci di tatto. Dovendo riportare questi organi ad una funzione sottoposta al controllo dell’Io-corpo, possiamo pensare di utilizzare degli esercizi di controllo e coordinazione spaziale ricordando però che ogni movimento, piccolo che sia, è già un movimento complessivo e che, nella sua esecuzione, coinvolge l’intero organismo. Perciò i riflessi comportamentali che impediscono il movimento fluido e coerente, vanno cercati ed indagati anche in altre parti del corpo che possono essere vicine o lontane dall’organo implicato (a volte parti del corpo diverse, ma coinvolte in un’unica funzione espressiva, veicolano messaggi contraddittori; Birkenbihl, 2002).
Il semplice ruotare della testa o, per restare nell’esempio precedente, lo spostare gli occhi da un oggetto all’altro, oppure dallo sfondo di un tramonto alla messa a fuoco di un viso a breve distanza da noi, oppure camminare a piccoli passi, sono movimenti che si accompagnano a configurazioni fisiche diverse cui corrispondono specifiche configurazioni neuronali, e quindi psicologiche, colorate affettivamente. Sono questi movimenti che vanno indagati terapeuticamente perché ogni movimento può produrre nell’organismo un’emozione legata ai movimenti analoghi del passato. Per questo possiamo dire che qualunque esercizio di rieducazione, e poi di integrazione, che riusciamo a pensare, deve essere proposto stando attenti ai vissuti che l’accompagnano e ai ricordi sollecitati. È come se i nostri ricordi fossero conservati in scrigni muscolari le cui chiavi sono celate in alcuni dettagli dei movimenti complessivi.
Dicevamo che una delle caratteristiche del panico è la perdita della capacità di controllare i movimenti oculari e la funzione del guardare e del vedere. Ciò comporta uno stato di confusione che può rivelarsi tanto a livello cognitivo quanto a livello affettivo/emozionale. Volendo ricondurre la persona alla fiducia nei confronti della possibilità di controllare i propri occhi, si può pensare ad esercizi di concentrazione oculare. Per esempio chiedendo alla persona di guardare fisso, per alcuni secondi e poi minuti, il centro dei nostri occhi, oppure la punta del nostro naso o del nostro dito. Allo stesso modo, per il controllo delle gambe e piedi si può usare l’esercizio del camminare ponendo attenzione all’appoggio delle parti dei piedi (tallone, pianta, punta, parte esterna e interna).
Mentre si svolgono queste attività non bisogna dimenticare l’attenzione al respiro.
Il respiro è l’elemento fondamentale della nostra vita. Oltre ad essere il primo e ultimo atto della vita, sovrintende ai singoli movimenti, alla loro successiva integrazione e all’integrazione delle funzioni di tutto l’organismo. Il “congelamento” del carattere nel nostro corpo avviene tramite la forma che il nostro respiro assume (si provi a pensare al trattenere il respiro dei bambini quando hanno paura) e dato che il carattere si lega al controllo, e il problema del controllo nel DAP è uno dei problemi principali(Ciardiello, ib.), in questo disturbo la funzione respiratoria è anche la prima ad essere compromessa. Potremo avere una costrizione alla gola, un blocco toracico o diaframmatico con sensazione di “pressioni” sullo sterno; si possono avvertire dolori intercostali o sensazioni di “buchi” all’altezza dello stomaco; le spalle si possono “chiudere” in avanti per impedire alle costole di ampliarsi. I muscoli dorsali si possono contrarre e quelli del collo irrigidirsi. Il bacino si può bloccare arrivando anche a compromettere una corretta deambulazione. Insomma, riassumendo, possiamo dire che si respira con tutto il corpo e che siamo anche il modo in cui respiriamo. Per questo, se proponiamo una rieducazione funzionale, di qualunque parte del nostro organismo, dobbiamo farlo contemporaneamente a quella respiratoria.
Anche per questa funzione valgono gli stessi principi di base: gli esercizi non vanno eseguiti come esercizi di ginnastica respiratoria ma vanno considerati “espressivi” di un modo d’essere personale finalizzato alla relazione. Perciò, e va ribadito, queste piccole azioni vanno indagate nei loro vissuti sensoriali, emozionali ed ideativi.
A proposito dell’indagine, qualche indicazione operativa generalizzabile a più livelli, la possiamo prendere dalle considerazioni a valenza analitica dall’Analisi Reichiana.
Quando si chiede alle persone di respirare, sia da distesi che in piedi o da seduti, scopriamo che in genere la tendenza è quella di chiudere gli occhi, perché con la chiusura degli occhi, lo sguardo si volge all’interno di noi stessi e in tal modo diventa maggiormente possibile “vedere” il respiro. È una modalità di concentrazione naturale che, tra l’altro, stimola sensazioni di abbandono che possono essere considerate “regressive” e la regressione può ricondurre al vissuto della dipendenza.
Allora, quando chiediamo alle persone di respirare, queste sono naturalmente indotte ad assumere un atteggiamento di abbandono, sono invogliate a lasciarsi andare e spinte anche un po’ a regredire. Ma perché questo avvenga naturalmente e senza allarmi, è necessario anche ci sia una fiducia che, come abbiamo visto, nel DAP bisogna ricostruire. Paradossalmente nel DAP ricostruire la fiducia vuole dire anche promuovere l’autonomia, che si lega alla possibilità di vivere nel mondo con gli occhi aperti e capaci di vedere. Queste due possibilità, apparentemente contraddittorie, vanno realizzate con cura, cautela e sistematicità perché, come è evidente, sono cariche di emozioni varie e complesse.
Se una persona chiude gli occhi probabilmente ha fiducia in chi la sostiene; ma restare con gli occhi aperti e morbidi, non allarmati, vuole dire che ha fiducia in sé stesso, nella propria capacità di relazionarsi e nella propria autonomia. Ha coraggio e guarda le cose in faccia. Questa è la funzione finale da perseguire, però solo dopo essere passati per l’acquisizione della capacità di abbandonarsi, regredire e dipendere senza timori. Ottenuto l’abbandono si cercano i modi, diversi per ognuno, per raggiungere una respirazione completa che coinvolga tutte le parti: addome, diaframma, petto, spalle, bacino e gambe. Quando la persona è giunta a sentire il respiro fluido, che “quasi come un’onda lo attraversa tutto”, si può proporre di aprire gli occhi conservando il modo di respirare acquisito e contattando la realtà circostante (appoggiare gli occhi sugli oggetti e/o sulle persone). Il passaggio successivo è l’aggiunta e l’integrazione della deambulazione.
Da queste osservazioni si può dedurre, con più puntualità di quanto già suggerito, che anche le attività sportive e socializzanti possono essere d’ausilio nei disturbi colorati dal panico. In effetti il ballo, la corsa, la bicicletta e le varie attività ludiche, sono attività che colgono aspetti specifici della persona. Aspetti che sono riscontrabili, in modo problematico, anche nel disturbo di panico: l’aspetto relazionale, quello della fiducia e quello dell’investimento corporeo che richiedono l’attivazione funzionale, contemporanea e integrata, delle diverse parti dell’organismo.
Chi soffre di DAP sta combattendo una dura lotta con le emozioni che tendono a relegarsi in qualche parte buia e inaccessibile. Più cresce la sfiducia, più queste emozioni diventano pericolose. Se non sono riconosciute, o vengono negate, aumenta la loro carica energetica, il loro valore, e sono soggette al rischio d’esplodere. È l’esplosione l’evento che maggiormente spaventa coloro che soffrono di DAP. Dentro loro stessi vivono già l’esito di una deflagrazione arcaica fantasticata, e per questo sono costantemente impegnati a tenersi insieme, fino ad esaurirsi e implodere, massificando i sentimenti. Alla fine, piuttosto che esplodere, si sceglie la destrutturazione che almeno salva le relazioni e non compromette la dipendenza.
Con l’ausilio di queste osservazioni, fatte con l’intento di fornire una semplificazione di un modo possibile di operare, possiamo dire che, nel Disturbo da Attacchi di Panico, qualsiasi attività che promuove l’autonomia, la coordinazione, il contatto con sé, il piacere e l’integrazione può essere un utile strumento. Ma dobbiamo anche dire che qualsiasi attività, perché porti sollievo psicologico derivante da un sentimento riabilitante duraturo, e quindi assuma un valore terapeutico, necessita anche di un’attenzione analitica per la quale non è possibile stabilire a priori un protocollo valido per tutti. Come ogni soggetto manifesta il DAP privilegiando determinate manifestazioni sintomatiche, allo stesso modo ogni soggetto necessita di particolari esercizi calibrati sulla persona e, sulla stessa persona, vanno calibrate anche le modalità d’indagine. Questo soggettivismo merita un capitolo a parte legato alla diagnosi.

Bibliografia:

  • V. F. Birkenbihl, “L’arte d’intendersi. Ovvero come imparare a comunicare meglio”, FrancoAngeli Ed., 2002.
    • W. R. Bion, “Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico”, Armando ed., 1970.
    • G. Ciardiello, “Genesi, diagnosi differenziale e terapia del disturbo da attacchi di panico (DAP)”, http://www.lidap.it/ciardiello.html
    • L. De Marchi, “Vita e opere di Wilhelm Reich, vol. I e II”, SugarCo Ed., 1981.
    • Donald W. Winnicott, “Dalla pediatria alla psicoanalisi. Patologia e normalità nel bambino. Un approccio innovatore”, G. Martinelli & C. Ed., 1975, 1991.
    • James, I. Kepner, “Body Process. Il lavoro con il corpo in psicoterapia”, FrancoAngeli Ed., Milano, 2006.
    • W. Reich, “Scritti giovanili Vol. I e II”, SugarCo Ed., 1977.
    • V. Ruggieri, “L’identità in psicologia e teatro”, Magi Ed., 2001.

Giuseppe Ciardiello è Psicologo, Psicoterapeuta, Didatta alla S.I.A.R.

S.I.A.R. (Scuola Italiana di Analisi Reichiana) scuola di specializzazione in psicoterapia autorizzata dal Ministero dell’Università. Elabora ed approfondisce le intuizioni di Wilhelm Reich. Ha come riferimento chiave l’unità psicobiologica dell’individuo e usa una metodologia articolata su più livelli: Analisi del Carattere, Vegetoterapia Caratteroanalitica che opera con acting corporei, e Analisi del Carattere della Relazione.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

L’ESPERIENZA PSICOCORPOREA

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Encuentro en una noche de verano (Incontro in una notte d’estate)
di Pietro Adorni

 

1 – Un po’ di teoria
Qualcuno, leggendo quest’articolo penserà “Pietro s’è bevuto il cervello!”
Non importa. Oggi si parla tanto di far moto, di andare in palestra, di tecniche di rilassamento psico-corporee.
Ebbene, il ballo racchiude in sé tutto quel che serve per socializzare, per recuperare un rapporto sano e sereno con la propria fisicità e quella altrui, per esprimere la propria creatività, per superare la timidezza, unendo l’utile al dilettevole, cullati dalla magia del ballo e della musica.
Parlo di ballo e non di “Dance-Therapy” o cose simili, perchè ritengo quantomeno assurdo il tentativo di ridurre qualcosa di grande e sconfinato, quali sono la musica e le altre espressioni artistiche, a “terapia”, ad un qualcosa di puramente “tecnico” (lo stesso vale per le religioni o filosofie religiose, dalle quali vengono estrapolate e commercializzate “meditazioni e tecniche antistress” dai nomi esotici ed ammiccanti…).
Sembra che, finiti i tempi dei balli “da soli”, si stia riscoperto il piacere del contatto fisico con l’altro. E tornano i balli più sensuali. Ballare in coppia è un modo divertente per imparare a stare insieme: aiuta a riscoprirsi, fa ritrovare il piacere di sfiorarsi in una seduzione esplicita, ma codificata… Salsa, merengue e tango: sono questi i balli che oggi coinvolgono sempre più persone, senza limiti di età. I loro meriti? Servono a mantenersi in forma, senza palestra, e hanno un’ottima funzione antistress.
Più adatti agli spiriti solari ed estroversi la salsa e il merengue, di origine caraibica, conservano nella musica la vitalità del mare, del sole e dei profumi tropicali.
Entrambi hanno ritmi facili, passi regolari, ed offrono spazio all’improvvisazione nonché un senso gioioso dell’esistenza e dell’amore.Avere già un compagno, o una compagna, non è fondamentale, lo/la si può trovare senza fatica nelle sale o nelle scuole di ballo.
Il tango argentino in particolare, si addice invece agli animi romantici e introversi: viene definito “una conversazione senza parole assai profonda” o “un ballo che, più che un ballo è un modo di intendere e vivere la vita”. Nel tango servono meno doti atletiche rispetto alle danze caraibiche, ma è necessaria una grande partecipazione emotiva alla musica ed un buon equilibrio, per eseguire senza fatica le diverse figure.
Sta poi alla sensibilità degli interpreti variare la successione dei passi e inserire ad arte incroci di gambe: ciò richiede applicazione, disciplina ed una buona conoscenza dei propri compagni o compagne di ballo. Solo così si può esprimerne la passionalità e bellezza estetica.
Il cuore pulsa più forte? Viene il fiatone? La testa gira? Potrà succedere le prime volte (ed è del tutto normale, in qualsiasi esercizio fisico), poi passa. Ma ne vale la pena!
E, parlando di ballo di coppia, è inutile ignorarne aspetti quali l’istintualità, la sensualità, la passionalità, il piacere del contatto fisico. Aspetti associati in genere, nella nostra cultura, ad una concezione egoistica, trasgressiva, talvolta addirittura peccaminosa, della vita, ignorandone o stravolgendone, del tutto o in parte, il significato e la semantica (lo studio teorico e storico del significato).
“Un altruismo che non passi per la felicità del corpo-proprio, per la pienezza del suo piacere, è immorale” e ancora “la gioia è il progetto biologico intrinseco all’intera storia dell’umanità: e il corpo, dotato della capacità di godere, ne è la prova più perfetta.” (N.Ghezzani, Volersi male, pag. 136-137).
In tanti anni di DAP e di impegno alla Lidap, ho maturato la convinzione che ogni percorso di apprendimento di modalità comunicative intrapersonali ed interpersonali più autentiche e, quindi, sane (mi riferisco anche ai gruppi di auto-mutuo aiuto), per essere veramente efficace non può scindere l’aspetto verbale da quello gestuale-affettivo e nemmeno privilegiare il primo a discapito del secondo, perché noi esseri umani ci esprimiamo ed interagiamo verbalmente, per circa un 30%, e gestualmente, per un 60%.
Riscoprire la nostra fisicità significa riscoprire il piacere di un abbraccio, di una carezza, di un bacio, di una coccola, del “sentire l’altro”, insomma. L’abbracciare e l’essere abbracciati equivale ad “accogliere” e ad “essere accolti”, a “riconoscere, accettare l’altro” e ad “essere riconosciuti, accettati dall’altro” per quello che siamo.
Il piacere corporeo è un che di genetico, del tutto naturale, quanto l’istintualità, la sensualità e la passionalità: caratteristiche umane che non è detto debbano prescindere dall’essere coscienti – e perciò responsabili – della nostra vita emotiva e morale.
Ciononostante tendiamo, più o meno velatamente, ad evitare il piacere (del corpo-proprio) e la sensazione gradevole e gioiosa che ne deriva. Forse, o senza forse, il solo pensiero di far emergere i nostri sentimenti, emozioni ed aspirazioni/desideri più profondi, di metterci a nudo, di mostrarci per quel che siamo, ci turba e ci spaventa. Imbottiti come siamo di condizionamenti sociali, culturali, di tabù, di valori imprescindibili (o pseudo-valori perbenistici?) che mascherano un nostro bisogno di esercitare controllo e possesso sull’altro, e di un bisogno estremo di sicurezza costi quel che costi, ci sentiamo “protetti” dagli schemi, dagli stereotipi, dall’abitudinarietà e, talora e paradossalmente, anche dal malessere e/o dal disagio e sintomi che inevitabilmente ne scaturiscono.
E’ vero che, in alcuni casi, le resistenze ad una comunicazione gestuale più sana e libera possono essere alimentate da vissuti oggettivamente traumatici o dolorosi (es.: una persona vittima di molestie o violenze sessuali), è vero che “il piacere non ha memoria, il dolore invece sì”, è altrettanto vero che non esistono motivi validi per vittimizzarci, soffocando parti/aspetti importanti della nostra natura e del nostro interagire umano che possono reindirizzarci verso una vita più gioiosa e piena.
Esiste poi il timore d’essere o di sentirci disapprovati o giudicati “trasgressivi” da chi ci circonda. Trasgressivi, solo perché riscopriamo in noi il piacere di comunicare/interagire con persone dell’altro sesso, ballando, sedendoci al tavolino di un bar a bere un caffè, o girando a braccetto con loro?
Beh, se questa è trasgressione, il codice morale sociale attuale andrebbe rivisto e modificato sotto molti aspetti perché qualunque espressione edonica (correlata al piacere di qualsiasi tipo: il dipingere, il fare footing, ecc.) riappropriata in funzione del nostro Sé, viene avvertita di per se stessa come trasgressiva.
Ricordo la proibizione del ballo, in auge 30/40 anni fa, da parte delle autorità religiose, ma non solo da quelle: erano molte le ragazze accompagnate a ballare, e sorvegliate a vista, da genitori, zii e fratelli, indipendentemente dal fatto che le famiglie fossero “credenti e praticanti”); ricordo, altrettanto bene, che la proibizione non valeva, ad esempio, per la danza classica (che non è mai stata priva di contatto fisico).
La proibizione poi era più rigida, e lo è ancora, quando il ballo era “al di fuori della coppia, del matrimonio”, in virtù di un’ipervalorizzazione del “legame” (leggi: dell’essere legati). Il leit-motiv erano, e sono, le solite frasi “la carne è debole”, “la paglia vicino al fuoco brucia” ecc., ecc..
2 – La gelosia
Sempre in tema, a questo punto, riterrei onesto ed obiettivo, onde non scaricare ingiustamente ogni colpa sulla cultura religiosa, aprire una parentesi sulla “gelosia”.
“Amor vuol dir gelosia…” è il refrain di una vecchia canzone. In effetti è difficile non esser gelosi di qualcuno e/o di qualcosa, specie se quel qualcuno o qualcosa ci attraggono o costituiscono motivo di vita per noi. Ma la gelosia, in quanto passione, e non emozione, presenta molte sfumature e può trasformarsi in qualcosa di soffocante e distruttivo, dai risvolti imprevedibili, che nulla ha a che vedere con l’amore.

  1. la gelosia da possessoindividua nell’altro una nostra necessità personale a cui non vogliamo rinunciare, quindi l’altro non deve crescere, perché il crescere realizza la possibilità di diventare “libero”. Rende incapaci di accettare e sopportare la libertà dell’altro, di perderlo, di esserne abbandonati (le canzonette di qualche tempo fa eran farcite di “Io son tuo” e “tu sei mia”). Un’estremizzazione della gelosia da possesso può degenerare, anzi pare degeneri sempre più di frequente, in caso d’abbandono, in quelle forme delittuose che potrebbero esser riassunte in “ti amo, quindi ti distruggo o, peggio ancora, t’uccido t’uccido!”.
  2. la gelosia da pregiudizio(o gelosia ideologica). E’ una gelosia che nasce dal presupposto ideologico che la relazione è un valore, l’individualità un disvalore o addirittura una colpa. Quindi chi sin muove da solo (con altri) sbaglia.
  3. la gelosia fobica: il geloso proietta sull’altro l’avvento di una libertà di cui ha paura. Quindi la reprime non solo in se stesso ma anche nell’altro (reprime la libertà ipotetica di poter vivere emozioni nuove, del tutto sconosciute).
    4 – Trasgressione?
    Di anni ne son passati, son cambiate tante cose, ma la visione/lettura/percezione del piacere psico-corporeo e della “trasgressione” sono tuttora confusi, distorti, e generano sensi di colpa (nelle persone più sensibili, in genere).
    I limiti posti da questa nostra società schizofrenica (in parte “moralista/sessuofobica”, in parte “neoliberista”) alla comunicazione ed alla crescita/maturazione/espressione del nostro Sé sono tanti. In parte, legati allo “status” individuale: da bambini dovremmo adattarci ad un determinato cliché, da adolescenti, ad un altro, da adulti, ad altri ancora, a seconda dei casi: se siamo fidanzati, celibi, nubili, coniugati, con alcune variabili, tra le quali, l’età e lo status sociale (economico). Un esempio: due persone anziane che si baciano sulla panchina di un parco potrebbero essere visti come “trasgressivi”, da gran parte dei passanti (qualcuno potrebbe storcere il naso o addirittura apostrofarli malamente… i più sensibili proverebbero un senso di tenerezza); non farebbe certo scalpore ed il termine “trasgressione” acquisirebbe un significato più morbido, se a baciarsi su quella stessa panchina, ci fossero un’industriale o un divo dello spettacolo, pur 60/70enne, e la sua compagna o moglie “di turno”. Ma tant’è…
    Se desiderate approfondire queste problematiche e ricavarne spunti utili, vi invito a leggere attentamente le pagine di questo sito ed i libri di Nicola Ghezzani (ci terrei a sottolineare che la mia non è una sorta di “P&P”, Pubblicità e Progresso, fine a se stessa: apprezzo e condivido il pensiero di Ghezzani perché ne ho sperimentato personalmente l’efficacia pratica).
    5 – E veniamo alla pratica
    Ora vorrei riportare un’esperienza personale recente. Un’esperienza “trasgressiva” (10 giorni al mare, senza moglie, ospite di un amico). Un’esperienza trasgressiva “soft”, comunque sana, espressione di una mia ribellione personale a certi schemi prefissati di carattere sociale.
    Lo scorso luglio, nella consueta passeggiata del dopocena, a Marina di Massa, in compagnia di un amico, eravamo sulla strada che costeggia il Parco Olivetti. Attraverso la recinzione, s’intravedevano, qui e là nei vialetti e nei prati, tra il via vai di persone, molti coniglietti, quelli piccoli, alcuni seduti tranquillamente, altri, invece, si muovevano goffi a brucare erba e foglioline. Dal porticato, al centro del parco, s’udiva musica di fisarmonica. Giunti al cancello d’entrata, c’eravamo fermati a leggere le locandine e manifesti appiccicati ad una grossa bacheca, curiosi di sapere se c’era una festa da ballo o cos’altro. “Ogni lunedì e mercoledì, alle 21,30, lezioni di tango”.
    Era un mercoledì ed erano circa le 22. “Entriamo a vedere?”, dico. Il mio amico, di qualche anno più anziano di me, pare un po’ restio, e sì che è appassionato di liscio!… Mi riferirà, più tardi, della sua scarsa propensione “a giocare (ballare) fuori casa”: preferisce le nostre feste paesane, dove ci si conosce tutti. Lui è in pantaloni lunghi, camicia e scarpe; io, in pantaloncini corti, maglietta e sandali. Entriamo nel piccolo bar, posto in una sorta di corridoio che immette sotto una tettoia. Ordiniamo un caffè. Ci sono alcune persone lì in piedi, accanto a noi, perlopiù donne, tutte eleganti in abito scuro, alcune carine. Tutte quante hanno, comunque, un portamento gradevole. Non occorre molto intuito: sono allieve o ballerine della “scuola”. Non m’è difficile chieder loro: “Scusate… è qui la lezione di tango?”. “Sì, è qui”, mi rispondono gentilmente. Mi sento un po’ goffo, vuoi per i miei 55 anni, vuoi per il po’ di pancetta che ho messo su. Eppoi non sono proprio in tenuta da ballo… Accenno, tuttavia, un “ma è possibile partecipare alla lezione?”. “Sì, certo! Perché no?”, rispondono sempre gentilmente. Il ghiaccio è rotto. Mi presento a due di loro, Rosalia e Nenè: “Ma… mi fate ballare anche se ho i sandali e i pantaloni corti?”. “Questo proprio no! Puoi andarti a cambiare, ti aspettiamo”, esclamano con un fare sorridente, leggermente ironico. A loro s’aggiunge il mio amico, seduto comodo al tavolino: “Eddai Pietro, e che ti ci vuole? Son due passi. Tutte queste donne son qui per te!…” M’avesse detto una frase del genere, qualche anno prima, timido com’ero, sarei sprofondato nel pavimento della pista da ballo, per l’imbarazzo. “Due passi, un corno!”, gli avrei risposto “Tra andata e ritorno c’è minimo un chilometro… e dimmi: quali sono le donne-qui-per-me?”. E’ caldo, sono sudato, sento la pelle appiccicosa.
    Arrivo all’appartamento, ancor più sudato, faccio una bella doccia e mi cambio. Scendo le scale e mi riavvio verso il parco. Non è che ami granché camminare, e penso tra me “Va a finire che arrivo là sudato fradicio più di prima!”.
    Sono quasi le 23. Allungo il passo ed arrivo che stan già ballando. Mi siedo un po’ a riprender fiato ed osservo. “Caspita, come ballano bene!!!”. E’ un piacere, una delizia, guardarli. Non sembrano per niente “dilettanti”. Le donne, poi, sfoggiano una grazia, una naturalezza, flessuosità e sinuosità, uniche, nei loro movimenti, nell’incrociare le gambe, nell’inclinare il loro corpo, lasciandosi trascinare. Senza falsa modestia, penso “E’ molto meglio che me ne stia qui seduto, bello calmo, o ci rimedio una figuraccia! E poi, quelle lì, belle e brave come sono, non perdono certo il loro tempo a ballare con me!…”.
    Prima che quel brano finisca, mi s’avvicina Hèctor, il loro insegnante. E’ un ragazzo argentino, scuro di capelli, la pelle olivastra, alto come me ma con un fisico asciutto da ballerino di danza classica. Mi dice “Ei Pietro, m’han detto che sei venuto qui per imparare a ballare. Seguimi!”
    La cosa mi stupisce non poco. “Chi gliel’avrà mai detto che mi chiamo Pietro e che sono venuto qui per ballare?”. Mi colpisce la sua cordialità inusuale. Scambiamo due parole, io mi sento titubante, anzi, per dirla tutta, avverto tensione, tremo…
    “Sei il benvenuto, il nostro è un gruppo di amici, aperto a tutti. Ti vedo un po’ teso, rilassati.”, “Hèctor, sai com’é… io ballo da molto tempo ma non il tango argentino… mi sentirei goffo, ridicolo… non mi va di farvi perdere tempo. Dai, ballate voi!”.
    Mi ripete: “Rilassati e non farti problemi, OK? Qui siamo tutti amici, un gruppo. Vedi, ci sono donne di tutte le età, e nessuna di loro se la tira. Adesso t’insegniamo i passi fondamentali, “la salida” (la camminata, l’ocho, e la chiusura)”. E fa un cenno a Laura, una bella ragazza mora di 24 anni, alta una spanna più di me. “Oddiooo! Qui sbiello!”. La tensione e l’imbarazzo aumentano. Hèctor segue i miei movimenti, attento e paziente, mi corregge una volta, due, tre… “Sei troppo teso, ansioso. Rilassati!”. E’ una parola, rilassarsi! Ci provo.
    Il brano finisce e ne inizia un altro. “Non scappare, Pietro! Adesso ti faccio provare con Maria”. Con Maria, mi trovo leggermente meglio, le esprimo il mio imbarazzo, mi risponde sorridente: “Eddai Pietro, non si nasce maestri, vedrai che, col tempo, impari!” . Continuo a sbagliare qualche passo, sono passi semplici, ma… Hèctor interviene ancora col “Rilassati, Pietro!” ed aggiunge: “Vieni qui, ti insegno io”. Non ho problemi a ballare con lui. Mi spiega che, nel tango, è l’uomo che deve comandare e guidare la donna. Sto il più attento possibile. Arriva Maddalena, una bella ragazza giovane, bionda. E’ simpatica e cordiale quanto Maria e Laura. Con Maddalena, e grazie a lei, riesco finalmente ad ingranare un po’ di più con quei primi passi. Arrivo a fine tango, soddisfatto. Sorrido io e sorride Maddalena. E’ solo l’inizio ed è la prima volta che son lì a cimentarmi col tango argentino.
    Hèctor non mi dà tregua: mi fa ballare con Rosalia, con Marta, con Nenè, con Angela. Sette balli con sette donne diverse. Incredibile! Tra un tango e l’altro, ho modo di scambiare due chiacchiere (si fa per dire) con Romeo, Alberto, Andrea. C’è anche Paolo, abbastanza indaffarato.
    La lezione finisce all’una di notte. Il mio amico se n’è andato da un bel pezzo. Non ha ballato. M’aveva detto “Ciao Pietro, io ho sonno, vado a casa. Tu stai pure lì.”.
    Saluto tutti e tutte e m’avvio a casa, fischiettando come un merlo. Giunto a casa, m’accorgo d’esser senza sigarette. Prendo la bici e raggiungo un distributore automatico in via Roma. Pedalo, tranquillo ed euforico. E’ bello assaporare l’aria fresca, sentirsi liberi. Non c’è un anima viva in giro, tutti bar sono chiusi e le insegne dei negozi, spente… Non avverto sintomi né sensi di colpa.
    Torno “a lezione” il lunedì successivo. Hèctor & Company stanno preparando uno spettacolo. Mi salutano. Mi siedo ed assisto alle loro prove. Non è per nulla noioso, anzi. Hèctor è piuttosto indaffarato ad osservare e sistemare scrupolosamente i dettagli (l’entrata in scena di ogni coppia, la loro collocazione, il saluto finale, gli inchini, ecc.). Si siede non lontano da me, a dare istruzioni alle coppie. D’un tratto, lo vedo alzarsi e venire da me: “Pietro scusami, prima t’ho salutato un po’ di fretta. Non vorrei che ti fossi offeso…”. “Ma figurati Hèctor!”. In pista, c’è una coppia che, mercoledì scorso non c’era: Enzo e Nadia. Bravi e molto affiatati (non ci vuol molto a capire che ballano insieme da tempo).
    Arriva mezzanotte e mezzo, le prove finiscono. Mi alzo per salutare per poi andarmene a casa. “Il nostro amico Pietro è stato seduto fino adesso, a guardarci… C’è qualcuna di voi disposta a fargli ripassare la “salida”?”. E’ ancora lui: diavolo d’un Hèctor!… La sorpresa è stata tale che non ricordo nemmeno quale delle ragazze m’era venuta incontro: erano comunque più di due.
    M’occorrerebbero pagine per descrivere lo spettacolo che hanno tenuto il mercoledì sera successivo nella piazza di Ronchi. Gli spettatori erano tanti (200 o più) ed attenti, e lo spettacolo, uno dei più coinvolgenti cui mi sia capitato di assistere (non inferiore, qualitativamente, a quelli trasmessi in TV). Tango argentino, flamenco, fandango.
    Il coreografo di tutti i balli, nonché interprete, è lui: Hèctor. Finito il tutto, alcuni della compagnia m’invitano a tavola con loro, a festeggiare il compleanno di Alberto. “No, grazie. Vi siete mostrati sin troppo gentili e non voglio abusarne.”. Qualcuno s’offre di accompagnarmi in auto. Rispondo ancora “No, grazie” e m’incammino verso l’auto, verso il posto in cui l’aveva parcheggiata il mio amico. Non la trovo e non trovo nemmeno lui. Giro per almeno mezzora nella piazza. Provo a chiamarlo tre, quattro, cinque volte, sul cellulare. Niente da fare, è sempre spento. Mi dispiace di averlo perso di vista a fine spettacolo, lasciandomi prendere dalla foga del momento: so che mi conosce bene, ma… Dai Ronchi a casa, c’è più d’un chilometro: un’occasione per un’altra passeggiata notturna.
    La morale della favola non è il “tutti a tavola” dello slogan pubblicitario. Non tutti amano il ballo né sono obbligati a ballare per star bene.
    Quest’esperienza estiva, unica nel suo genere, che spero abbia un seguito, è stata per me una riconferma in più di alcuni principi, che ho appreso in 10 anni di volontariato alla Lidap Onlus(nella quale opero tuttora) e di frequenza ai gruppi di auto-mutuo aiuto Lidap, che ho cercato di far miei e di tradurre in pratica quotidiana: la disponibilità ad aprirmi, a comunicare, a chiedere, ad imparare, a non limitarmi ad osservare bensì ad entrare in gioco, nella mischia (quand’è possibile, ovvio). Senza falsa modestia e, men che meno, autoglorificazione (a chi e a cosa servirebbe?), posso affermare che “qualcosa, anzi molto, è cambiato” nella mia vita.
    Per concludere, tango, altri balli o meno, non possiamo non interrogarci sul perché, paradossalmente, in questa nostra società moderna “più libera” nei costumi (forse solo in apparenza?) permanga, anzi vada aumentando, proprio la paura/fobia del contatto fisico e della comunicazione affettivo-gestuale tra persone di sesso opposto. L’infoltirsi crescente di persone, di età giovane, alla ricerca di rapporti interpersonali virtuali, a distanza, parebbe sostenere tale ipotesi. Che dire, poi, della crescente carenza di parole e coccole anche in ambito familiare? Ci vergogniamo di manifestare i nostri bisogni originari più autentici, quasi fossero cose obsolete, “da bambini”?


Pietro Adorni

membro Consiglio Direttivo LIDAP

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

Genesi, Diagnosi differenziale e Terapia del Disturbo da Attacchi di Panico di Giuseppe Ciardiello*

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I pazienti che manifestano il tipo di disturbi riconducibili al DAP (Disturbo da Attacchi di Panico), si presentano allo psicologo dopo una serie di richieste d’aiuto volte sia al medico curante sia ai vari distretti d’emergenza. Questo perché il disturbo che si manifesta col panico non presenta avvisaglie. Non ci sono periodi precedenti l’esordio vero e proprio, con sintomi ridotti; a meno che non vogliamo far risalire all’ansia più o meno grave questo ruolo per così dire propedeutico. Ma l’ansia accompagna troppi disturbi per potersi considerare distintiva di qualcuno in particolare. Penso valgano le stesse considerazioni per la paura. Non è la stessa cosa per l’aggressività espressa o coartata. La maggior parte delle osservazioni che posso vantare depongono per una presenza notevole di aggressività non espressa. Mi sono persuaso che proprio dall’aggressività, che si ha timore di esprimere, derivi il formarsi della sintomatologia che va sotto il nome di attacchi di panico.
Se assumiamo questo punto di vista diventa facile capire anche il motivo per cui la cura di questo disturbo è rivendicata da gruppi di “auto-mutuo-aiuto”; gruppi autocostituiti che fino a qualche tempo fa nascevano sotto la spinta di disturbi di tipo sociale e/o relazionale o più di massa cioè per i quali c’è una maggiore possibilità autodiagnostica e spesso non sono considerati di competenza degli “strizzacervelli” (alcolisti anonimi e mangiatori anonimi). Parlando di “aggressività non espressa” stiamo già parlando di problemi relazionali e infatti penso che il DAP sia il disturbo della relazione per antonomasia.

Genesi

Ognuno di noi ha la sensazione di un rapporto di continuità col proprio passato. Malgrado l’evoluzione e la crescita si attuino per mezzo di processi di cambiamento, noi siamo convinti d’essere sempre noi stessi. Il nostro senso d’identità rimane costante. Viene spontaneo chiedersi allora cosa è a rimanere sempre uguale e a darci questa sensazione di continuità.
Dal concepimento in poi le cellule del nostro organismo cambiano costantemente e i vari organi “esitano” solamente in forme strutturalmente definite (Ruggeri, 1997). Ciononostante siamo anche vissuti da un sentimento di “esistere” che accompagna il realizzarsi delle funzioni dell’organismo che noi siamo.
Questo sentimento ci dà il senso di continuità; è ciò che chiamiamo “il senso di Sé”. Come il sentimento che accompagna lo svolgersi delle funzioni è riconducibile al Sé, al sentirsi dell’organismo, l’Io è riconducibile al sentimento che nasce a seguito della “integrazione delle funzioni” e al suo riconoscimento.
Alla nascita ogni bambino si ritrova non solo con un corredo genetico completo ma anche con organi tutti funzionanti. I sistemi più importanti sono già definiti mentre la maturazione nervosa si completerà solo dopo la nascita, una volta che l’organismo è calato nell’ambiente in cui dovrà vivere.
La dotazione organica è notevole ed ogni organo è capace di molte competenze; ciò che manca all’insieme dell’organismo è la coordinazione degli organi volontari. Sono presenti alla nascita tutti i riflessi essenziali, da quello rotuleo all’ammiccamento oculare, a quello prensile, ma il bambino non è ancora capace di coordinazione e quindi non sa seguire un oggetto con ambedue gli occhi, non sa portare alla bocca un oggetto e non riconosce la propria mano in quell’organo che apre e chiude davanti ai suoi occhi.
Per tutto il periodo della gestazione queste competenze non sono state necessarie. Diventano importanti dalla nascita e successivamente caratterizzano anche le modalità relazionali e l’autonomia del nascituro. È da questo momento infatti che viene chiesto al bambino l’esercizio e il movimento coordinato dei propri organi e, cosa più importante, gli viene chiesto di farlo in maniera intenzionale. In questo modo il bambino è indotto a sperimentare-si e impara a ri-conoscere gli organi, i propri organi.
Il bambino è indotto a ri-conoscersi (riconoscere sé) da una figura molto importante e da cui dipende totalmente. Il bambino impara contemporaneamente, perché ama e dipende da chi ama, che è fatto di organi autonomi e che questi pezzi di sé possono essere messi insieme a formare uno “schema” più complesso di comportamento.
È nella relazione che è promossa “l’intenzione”. L’intenzione si lega e nasce dal vissuto di piacere che a sua volta deriva dalla ricompensa che il bambino vive nello scoprire di poter gestire la realtà coordinando il movimento di quelle parti del proprio organismo. Forse in questo momento scopre anche il senso del possesso e “dell’essere” padrone…
Insieme al piacere della scoperta di poter intervenire nella gestione della realtà, che lo mette in relazione con l’esterno (dal cui confronto nasce l’Io), è possibile ipotizzare per il bambino un piacere più sottile e profondo che accompagna questi eventi, ed è quello di scoprirsi capace di una “integrità”, di un’interezza. Il piacere narcisistico del “tenersi insieme” (1).
Quindi possiamo dire che il bambino “si vive” nei propri organi funzionalmente separati; anche se maturi, inizialmente questi organi non sono riconosciuti come “Io”. Poi, nel momento in cui sperimenta la possibilità di comporre movimenti più complessi e coordinati, scopre sia gli organi sia il piacere di muoverli insieme in modo integrato e coordinato. Il piacere narcisistico accompagna la nascita dell’Io.
Il vissuto che accompagna quest’esperienza sarà un sentimento d’integrazione progressiva che si accompagna al riconoscimento, per contrasto, del sentimento iniziale di “non-integrazione”(2).
Quando siamo stanchi e provati, la messa in atto di comportamenti più elementari corrisponde al processo della regressione per mezzo della quale si attua un recupero energetico. Da questo punto di vista le modalità di funzionamento regressive, richiedendo meno impegno, sono anche modalità di recupero energetico. È come se dicessimo che le modalità di funzionamento più mature, cioè l’Io per poter esistere e le sue funzioni per poter essere mantenute attive, avessero bisogno di costante attenzione e impegno per cui, quando siamo stanchi e/o stressati, possiamo “mollare” e lasciare che subentri un modo di funzionare più semplice.
Del resto non potrebbe essere diversamente considerando tutto l’organismo un evento processuale; un processo più evoluto conserva le modalità di funzionamento degli elementi che lo compongono per cui possiamo dire che vivere ad un certo livello dell’evoluzione e di organizzazione organismica, richiede l’esistenza di un certo “lusso energetico”. In alcuni questo livello di organizzazione energetica viene vissuto come “sforzo”. Non riuscendolo a sostenere si adottano procedure regressive con la corrispondente adozione di comportamenti precedenti e più elementari. In questi casi però c’è un rischio; è possibile che il ritorno regressivo ai comportamenti precedenti riattivi vissuti arcaici di sviluppo evolutivo che ricordano i momenti di non-integrazione. Il rischio è che anziché rivivere questa esperienza come il ritorno alla non-integrazione la si possa vivere come una caduta o un precipitare nel vissuto della “disintegrazione”.

1 – “Il narcisismo, che è un processo presente insostituibilmente in tutti gli umani, ha dunque per noi le sue radici nella corporeità, e si sviluppa attraverso l’intervento di meccanismi legati all’esperienza del piacere… Il piacere narcisistico è piuttosto assimilabile a quello che si chiama “istinto di vita”: è il piacere che deriva dall’integrazione degli eventi corporei che, nella forma di istinto di vita, è generato dalla necessità biologica di “tenerli insieme” e di dar loro “unità”. (Ruggeri, 2001, 99).
2 – “La disintegrazione della personalità è un ben noto stato psichico, e la sua psicopatologia è molto complessa. L’esame di questi fenomeni in analisi, tuttavia, mostra che lo stato primario di non-integrazione è alla base della disintegrazione” (Winnicott, 1991, p. 180).

Diagnosi differenziale

In genere è difficile legare gli eventi DAP a momenti specifici della propria storia personale perché evidentemente qualcosa relativo ai “legami” è stato compromesso ed è diventato difficile il recupero dell’esperienza passata. Quando parliamo di “esperienza” ci riferiamo sia ai “comportamenti” osservabili sia alle emozioni e ai sentimenti che li accompagnano. All’inizio della vita extrauterina le emozioni non sono affinate ed è dal piacere e dal dolore che si svilupperanno la rabbia, l’odio e l’amore. In questo periodo, quando il bambino scopre di esistere, lo fa attraverso gli occhi e lo sguardo di coloro che gli vogliono bene. È attraverso loro che scopre il piacere di esistere e con loro comincia e rivendicare e a scoprire il piacere (narcisistico) di realizzare le proprie intenzioni.
In che modo avvengono queste scoperte? Prima di scoprire la possibilità di realizzare le proprie intenzioni il bambino scopre, negli occhi della madre, il “piacere” della realizzazione del suo (di lei) desiderio. All’inizio è lei che mostra piacere o disappunto indipendentemente dall’intenzionalità del bambino nel realizzare qualsiasi comportamento. È lei che comincia il gioco di desiderare che lui realizzi cose. S’instaurano i primi i primi giochi relazionali in cui il bambino scopre il piacere d’essere chiamato in causa. Scopre che i richiami, gli appelli sono rivolti a lui e solo a lui ed è il piacere e il desiderio della intenzionalità, che lui compia delle azioni intenzionali, scritti negli occhi della madre, che il bambino legge e alla fine cerca e riesce a fare propri.
Ma come riesce un bambino a fare propria l’emozione materna? Ad incorporarla ed introiettarla? Una delle competenze ereditate geneticamente dai bambini è quella del riconoscimento dell’emozione attraverso l’imitazione. Sembra che i bambini posseggano questa capacità fin dal primo giorno dalla nascita (Goleman, 2004). Secondo alcuni assunti neurofisiologici (Ruggeri, 1997) l’empatia è un sentimento i cui correlati neurofisiologici sono attivati nell’esperienza imitativa. Forse è questo a spingere il prof. Ruggieri a definirla “decodificazione imitativa”. Allora forse, se l’empatia è una funzione corrispondente ad organi già presenti alla nascita, vuol dire che la condizione del suo sviluppo è l’esercizio ed è per questo forse che possiamo anche “dimenticare” d’essere empaticamente competenti, per mancanza d’esercizio. Oppure possiamo anche non aver mai imparato. Manca l’esercizio quando non ci sono stimoli adeguati. Al bambino non è offerta l’opportunità dell’esercizio di una funzione.
I processi precursori dell’empatia presenti alla nascita sono tecnicamente definiti “mimetismo motorio”. Probabilmente è con l’utilizzo di questi processi che il bambino porta dentro di sé il desiderio materno o, per meglio dire, costruisce dentro di sé il desiderio corrispondente all’immagine di ciò che vede riflesso negli occhi, nella voce e nel volto delle persone care. Le prime cose che desiderano le persone che si prendono cura del bambino, per il bambino, sono legate all’evoluzione. Il primo desiderio di ogni genitore è scoprire che il bambino è capace di apprendere.
Ogni sua più piccola conquista è accompagnata da manifestazioni di gioia. Queste manifestazioni fungono da rinforzo perché il comportamento si ripeta e sempre meglio.
Il sempre meglio sta per “sempre meglio integrato” corrispondente alle esperienze attraverso cui il bambino impara a coordinare il movimento del proprio corpo e dei propri organi nello spazio in relazione alle persone ed agli oggetti e finalizzando tutto al perseguimento di un obiettivo.
Scoprendo di “voler fare” il bambino scopre se stesso e scopre che il suo piacere, nel realizzare l’integrazione degli organi del suo corpo e delle funzioni di questi organi, corrisponde al piacere antico intuito negli occhi della madre. La gioia della madre per la sua riuscita sarà la sua gioia.
Quindi, sintetizzando possiamo dire che il bambino dalla nascita scopre i propri organi; che attraverso l’esercizio del mimetismo motorio scopre le emozioni dei genitori e costruisce l’empatia; si appropria delle loro emozioni e scopre la gioia di poter agire,con intenzione, sulla realtà attraverso il processo di integrazione dell’Io. E scopre anche una cosa che ha per noi un grande valore esplicativo ai fini della costruzione di un’ipotesi sulla genesi del DAP: scopre che il costante sostegno e desiderio che i genitori manifestano in direzione del perseguimento dell’integrazione dell’Io, funge da collante tra le stesse funzioni per cui il bambino lega le funzioni che “sente” maggiormente valorizzate. Per questo la partecipazione, l’interesse, la disponibilità, la presenza, il contatto di coloro che si prendono cura del bambino, sono strumenti utili a rafforzare il formarsi dell’Io (integrato), mentre al contrario, l’assenza, la mancanza di disponibilità eccetera conducono a disturbi corrispondenti all’atrofia, alla dimenticanza, a poca dimestichezza nello svolgimento di funzioni specifiche.
In questa dinamica energetica anche i pre-giudizi, le convinzioni, la fede che i genitori hanno nei confronti della possibilità del bambino di realizzare le opportune integrazioni e apprendimenti, li condizionano. È il desiderio e la fiducia della mamma nella capacità del figlio che lo rendono veramente capace di realizzare i suoi desideri (della madre) che poi diventano anche del figlio. Di solito diamo per assodato che i genitori siano convinti delle reali possibilità del figlio di realizzare gli eventi maturativi. Invece nella realtà il giudizio dei genitori, quello che sentono e pensano rispetto al figlio, è sempre condizionato dai sentimenti che vivono nei suoi confronti, e in genere, nella relazione col figlio, ogni genitore porta anche i sentimenti non elaborati e i bisogni non soddisfatti dalle relazioni avute col/nel suo mondo. Anche quella col figlio quindi è una relazione colorata dal proprio mondo interno ed anche con lui si esprimono bisogni di dipendenza e regressione infantile. Molte insoddisfazioni possono venire a galla e i propri bisogni si impongono in modo più impellente di quelli degli stessi figli. I genitori possono ritrovarsi ad essere troppo presi dalla propria realtà e distratti nei confronti dei figli.
Inoltre capita a tutti nella vita di scoprire che ci sono periodi alti e bassi e a tutti può accadere che, pur essendoci disponibilità, amore e attenzione, ci possono essere periodi in cui anche le persone che si prendono cura di un bambino sono presi da altro e inavvertitamente cambiano il loro modo di rapportarcisi.
Per una madre può esserci la nascita di un altro figlio, un problema di lavoro, il decesso di una persona cara, insomma eventi che possono distogliere l’attenzione dal bambino riducendone l’investimento affettivo. Del resto è un normale modo di relazionarsi quello che prevede il graduale disinvestimento genitoriale e serve ad educare all’autonomia. Solo che questo disinvestimento non sempre si realizza nel momento opportuno né nei modi in cui il bambino può tollerarlo.
In questo periodo della propria esistenza la sua vulnerabilità è notevole. La vita si limita al rapporto instauratosi con le figure primarie e, in alcuni casi, qualsiasi cambiamento che non tenga conto del periodo evolutivo e delle modalità di relazione del bambino, è suscettibile di ingenerare un vissuto drammatico che produce un grosso dolore e paura.
Il dolore e la paura generano la rabbia che non può comunque dirigersi contro le persone da cui si dipende perché rimangono sempre gli oggetti più significativi della propria esistenza; attaccarle significherebbe rischiare di distruggerle, di fargli del male e questo non può essere, non può avvenire. Nasce un conflitto il cui esito porta a rivolgere questa rabbia contro se stessi. C’è un’inversione di tendenza. Aggredendo se stessi si realizzano diversi obiettivi: si scarica la rabbia; si punisce colui che vive la rabbia e desidera fare del male alle persone cui si vuole bene; si fa anche del male all’oggetto cui i genitori vogliono bene, quindi li si ferisce indirettamente.
Quando le esperienze di questo tipo, di disattenzione genitoriale, di disconferma o di trauma, sono frequenti o molto intense o durano per troppo tempo, è possibile si formino delle personalità dubbiose; con poca fiducia e spaventate dalla realtà, sempre sulla difensiva. Sono persone costantemente attente a controllare tutto e tutti e tese a tenere in un insieme coerente, con tutte le loro forze, le componenti emozionali e cognitive del mondo che si sono costruiti.
Sono persone costantemente sottoposte a stress emozionali e fisici perché si sobbarcano di tutti gli oneri di un’autonomia di cui non sono capaci o alla quale sono impossibilitati; cercano di dimostrare di poter fare tutto da soli, come immaginano che vogliono i loro genitori; di non aver bisogno di alcun aiuto pratico né affettivo; tengono a bada le emozioni e la loro espressione perché hanno interpretato il voltafaccia o il disinteresse o la disattenzione genitoriale come una richiesta tacita di crescita e autonomia. Pur non avendo mai vissuto una vera e grave separazione vivono paventandone sempre una. Sono quindi persone sempre in allarme e impegnate a vivere al massimo delle proprie possibilità.
Probabilmente proprio questo “massimo costante sforzo” rende loro impossibile realizzare qualunque progetto. La tensione e l’ansia derivanti da questa modalità di approccio alla vita sarà energeticamente depauperante perchè si esaurisce nel tentativo del controllo.
Il naturale sentimento di fiducia nelle proprie possibilità, non essendo stato alimentato dai genitori distratti, presi altrimenti, arrabbiati, insoddisfatti, delusi, è frainteso e viene sostituito da quello del controllo. Certamente perché c’è anche più dimestichezza con questa pratica piuttosto che l’altra.
Qualunque vera separazione o anche solo il rischio di una vera separazione, che potrebbero anche essi stessi giudicare e sentire come necessaria, una perdita improvvisa o anche solo il rischio di una perdita, mette questa persona davanti alla realtà del proprio vissuto d’impossibilità a “farcela” a sopravvivere e può scatenare un attacco di panico.
Gli attacchi di panico hanno esordi improvvisi ed inaspettati. Questi momenti di acuta ansia non durano moltissimo ma comunque il tempo sufficiente a stabilizzare un sacro timore che l’evento possa ripetersi.
Non ci sono motivi oggettivi di scatenamento; il pericolo e il terrore che si racconta di vivere è solo un tentativo di descrivere l’emozione, che si crede, dovrebbe accompagnare le sensazioni disgreganti che si sperimentano. La paura è terribile perché è di morire e non ci sono parole capaci di rendere conto efficacemente del vissuto e in maniera credibile. In quel momento non è l’individuo a vivere l’attacco di panico bensì, al contrario, ne è vissuto. Si ha paura della follia e della perdita di controllo perché quello che si sta vivendo “è” follia, “è” al di là di sé. L’Io con tutte le sue capacità di controllo, razionalità, lucidità ha abdicato o si è anche lui nascosto da qualche parte. La tempesta infuria e devasta i ritmi, sconvolge i confini.
Ogni parte del corpo va per conto suo, diventa pesante, stanco, estraneo e “quelle strane sensazioni” diventano indici di una volontà che è dentro di noi ma non siamo noi; non la riconosciamo come nostra. Nasce la paura della follia e di non poter essere artefici di noi stessi nelle esperienze future. Si autoalimenta la sfiducia. Comincia una lotta immane ed estenuante tra il cedere, lasciare andare e lasciarsi andare o tenere/tenersi sotto controllo. Il “sapere” dell’irrealtà del sintomo non basta a tranquillizzare; tachicardia, senso di soffocamento, blocco allo stomaco, contrazioni viscerali, disturbi alla vescica, tremori agli arti, tutte sensazioni, forse non reali, ma non per questo meno vere.
Dopo le prime volte, la diagnosi ufficiale, “sindrome da attacchi di panico”, diventa anche una condanna perché è come se questo disturbo venisse catalogato tra quelli di fantasia, non reale, inventato. Chi non l’ha mai vissuto non riesce a capacitarsi della veridicità delle sensazioni e dei vissuti raccontati e allora accade che questi disturbi vengono vissuti in solitudine, là dove matura il pudore a confessare la numerosità degli attacchi e la loro gravità. Quando poi non si arriva anche a sentirsene in colpa.
Nella relazione si cerca la sicurezza sulla quale comunque ci si riserverà sempre qualche dubbio. Si tende alla simbiosi e all’approvazione degli altri. Si temono le emozioni bloccando in modo particolare l’espressione dell’aggressività; si tende al conformismo sociale e si sacrifica la creatività.
La cosa che più di tutte si evidenzia è il legame tra angoscia di separazione e panico.

Attacco ai legami dell’Io come presupposto per il DAP

L’approccio terapeutico alla sindrome parte sempre da un’ipotesi e questa può essere formulata a partire dall’osservazione del comportamento e dai vissuti fenomenologici. È per questo che ogni intervento deve essere preceduto da una breve indagine diagnostica. A volte è anche possibile ci siano manifestazioni sindromiche simili che, pur appartenendo allo stesso quadro diagnostico, possono poi rivelare una diversa genesi dinamica e perciò diventa importante che la diagnosi sia anche capace di leggere una differenza nel formarsi di un certo quadro nosografico.
Nel DAP ci colpisce quanto ci viene riportato circa un vissuto di separazione tra l’espressione corporea e la capacità di riconoscere l’emozione rappresentata. L’unica emozione riconosciuta alle diverse attivazioni fisiche (tachicardia, soffocamento ecc.) è la paura. Le persone affette da panico nelle sue varie manifestazioni, non sono in grado di risalire alle emozioni che hanno scatenato quelle attivazioni neurofisiologiche ma riescono unicamente a riconoscere quella da esito finale. È possibile supporre che proprio il mancato riconoscimento emozionale porti ad una sensazione di estraneità sensoriale che, alla fine, è riconducibile alla paura.
Un altro elemento distintivo che può assumere valore differenziale nel DAP è il fatto che, mentre nelle forme di attivazione somatica riconducibili all’isteria l’investimento riguarda l’organo e la funzione specifica relativa, in modo che il sintomo assume un proprio linguaggio e una propria comunicazione alternativa rimandando sempre a qualche altra cosa (il sintomo sta per qualche altra cosa), nel panico ciò che viene investito affettivamente è il legame tra le funzioni dei diversi organi. È investita la funzione di raccordo e il legame tra le stesse funzioni che in tal modo perdono di senso e significato. Proprio questo investimento dà conto sia del valore aggressivo di quest’affetto sia della valenza relazionale del DAP.
Tutto ciò ci conferma ulteriormente anche rispetto a quanto accennato a proposito dell’empatia; cioè che le funzioni dipendono dall’esercizio e dall’utilizzo che ne facciamo e che, ora possiamo dire, è innanzi tutto relazionale.
Nel tentativo di spiegarci cosa accade negli eventi di DAP proviamo a dire che i processi fondamentali del nostro organismo sono relativi alle funzioni del “legare” e “separare”. L’abbiamo visto un po’ in opera nell’evoluzione e abbiamo anche visto che queste due funzioni operano anche a carico di ciò che costruiamo dentro di noi. Una volta scoperto l’uso che possiamo fare delle varie istanze, emozioni, sensazioni e funzioni che formano il nostro organismo, leghiamo e mettiamo insieme quello che è fuori di noi e quello che viviamo dentro. Quest’operazione la realizziamo sia a livello psicologico che corporeo anzi al contrario, sia a livello corporeo che psicologico, perché è dalle esperienze corporee che partono le informazioni che alla fine “mentalizziamo” per sintesi progressiva. Le funzioni del “legare” e “separare” si legheranno e avranno una corrispondenza con le sensazioni e con le emozioni così che possiamo parlare di una sorta di “corporeizzazione”. Cioè, contrariamente a quanto può suggerire il termine, le emozioni possono essere comprese solo dopo che le abbiamo sentite nel corpo e abbiamo imparato a conoscerle. Il che vuol dire che ciò che sentiamo nel corpo ha sempre un correlato e un significato emozionale; solo che può essere subentrata una difficoltà a ri-conoscerlo. Un’interruzione tra il sentire e il capire.
Ciò che negli attacchi di panico determina questo scollamento è la rabbia rivolta contro l’Io e le sue funzioni. In queste persone quando l’evento separazione, o la sua possibilità, si produce realmente, sotto forma di un’eventuale decesso, allontanamento da persone care, realizzazione di un progetto d’autonomia (tesi di laurea, diploma), matrimonio o anche si presenta in forma simbolica (un viaggio, un volo, un conflitto relazionale) e sono in un momento di stress fisico o psicologico, scatta l’attacco di panico derivante da un vissuto di dolore cui corrisponde una rabbia che non può essere indirizzata verso l’oggetto scatenante in quanto è lo stesso oggetto visto e perseguito come gratificante. Questa rabbia viene allora diretta verso l’Io, che è “un’integrazione di funzioni”, menomandone la capacità legante in quanto è proprio questa capacità che rappresenta, in quel momento, l’inverso del processo che sta generando la rabbia (la separazione) e, per l’inconscio, l’inverso di una cosa è la cosa stessa; si realizza con questa modalità l’aggressione dell’evento separazione che fa stare male.
L’aggressione dell’Io rappresenta per questo disturbo anche l’aggressione dell’oggetto condiviso dalla nascita con la figura primaria di relazione; con il primo campo “madre” il bambino condivide la gioia e il piacere narcisistico dell’integrazione. Aggredire l’Io può equivalere, per il bambino, ad aggredire in sé il desiderio materno della crescita e dell’autonomia.
Una diagnosi energetica rivelerà in queste persone una buona tonicità, tendenze affermative e atteggiamenti risolutivi che rimarcheranno tenacia la quale può indurre a errate valutazioni diagnostiche di masochismo morale. Queste persone non sono masochiste perché non godono nello star male e nel non riuscire a realizzare i propri obiettivi. Anzi ne soffrono e se ne affliggono e l’autodenigrazione è solo un’ulteriore manifestazione della rabbia autodiretta.
Quando invece siamo effettivamente in presenza di una bassa energia, è possibile si realizzi una pura difficoltà dell’Io a realizzare una costante integrazione delle funzioni fisiche e mentali. Eventuali esaurimenti fisici e/o psichici possono manifestarsi con attacchi di panico. Però non possiamo ancora dire d’essere in presenza di una sottostante o evidente depressione perché questa carenza investe le capacità dell’Io e non quelle del Sé.
Queste persone sono persone che s’impegnano e si danno da fare ma sono facilmente vittime della stanchezza, dell’esaurimento, della difficoltà di concentrazione, mancanza di costanza e può capitare che siano anche destinate ad essere soggette ad errate diagnosi di depressione.
Il DAP copre invece una vera depressione quando l’aggressività, l’animosità e la rabbia sono rivolti al Sé, al sentimento che accompagna la sensazione di esistere. In questo caso l’individuo è svuotato di senso anche se ugualmente può essere preda di senso di perdita, dispersione e disintegrazione. L’Io in questo caso è come se “recitasse il panico” con lo scopo di trovare un conforto, un legame, un’accoglienza che possa riuscire a dare un senso relazionale all’esistenza. È proprio il valore relazionale che assimila queste due manifestazioni.
Per questa serie di considerazioni possiamo dire che le persone destinate all’attacco di panico, lo possono incontrare ogni volta che vivono una relazione nella quale c’è il rischio, anche solo paventato, della separazione. Si può dire che questo evento è così tanto temuto che si impegnano a tenere insieme la relazione ostinatamente anche “faticando moltissimo” e al limite delle proprie capacità, sacrificando tutti i propri bisogni e desideri.
La problematica della separazione è quindi principe in questo disturbo presentandosi a tutti i livelli di relazione; “mettere e tenere insieme” le cose e le persone sono i processi maggiormente perseguiti perché maggiormente meritevoli e necessitanti di riparazione.
Nemmeno rilassarsi è possibile per queste persone perché il relax si accompagna ai vissuti di regressione psicofisica e regredire, per loro vuole anche dire “tornare a modalità di funzionamento precedenti”. Quelle “modalità di funzionamento evolutivo” precedenti sono proprio le modalità di non-integrazione infantile che queste persone vivono con allarme e paura perché, per loro, l’allentamento dei legami tra le funzioni si accompagnano a vissuti di rabbia rivolta all’Io come rappresentante simbolico di oggetto d’amore condiviso e quindi sono vissuti di disintegrazione e perdita.
Da qui la paura di perdersi, rompersi e frammentarsi; la paura d’impazzire.
La paura di “non sapersi controllare” che l’attacco di panico provoca, è quindi da mettere in relazione alla paura di non sapersi più tenere insieme e alla paura che l’Io perda la capacità di “controllo funzionale”. Nel DAP quindi non è messo in discussione l’autocontrollo come funzione Super egoica, ma il controllo come funzione dell’Io.
La lotta evolutiva di queste persone è tesa a dimostrare-si capaci di un’integrazione di cui non sono per niente sicure. E non ne sono sicure perché nella relazione con i genitori non hanno avuto sufficienti conferme della loro “capacità/possibilità” di farcela. Forse inizialmente i genitori erano distratti o presi da altro, poi disinteressati, poi da più grandi li hanno disconfermati e non è raro infatti che si siano trovati davanti a vere e proprie competizioni con le figure genitoriali nel cui confronto hanno cercato e tuttora cercano di mostrarsi più capaci e più bravi di gestire la famiglia, la professione, la relazione. Competizione che a sua volta esaspera ed alimenta rimproveri e ritorsioni genitoriali.
Questa competizione permane tanto a lungo che a volte si rivela ancora attiva nel perseguimento problematico e forzato dell’autonomia anche nell’età adulta e, proprio perché forzata, si risolve spesso in esiti disastrosi.
Questa dinamica, relativa all’Io, si lega alla fiducia piuttosto che al controllo.
La capacità di controllo è ciò che la società in genere ci chiede; è un appello alla forza, all’impegno energetico. Ci chiede di rinsaldare e fortificare i limiti, i confini del nostro organismo e non lasciare uscire né entrare elementi estranei. Si fa appello implicitamente alla rigidità che può stare anche per “chiusura”, forza, impenetrabilità, per corazza, anche caratteriale direbbe Reich. Nel richiamarsi al controllo si fa più appello alle istanze riconducibili al Super-Io piuttosto che all’Io.
Ma la rigidità si lega alla fragilità ed è proprio questa la caratteristica che incontriamo nelle persone preda degli attacchi di panico quando coltivano il controllo piuttosto che la fiducia. Sono al contempo forti e fragili. Danno l’impressione di potersi fare carico di qualunque cosa tanto da destare l’incredulità, la sorpresa e il disappunto, anche in chi li conosce da tempo, quando poi crollano.
In questo cerchio si autoalimenta la sfiducia.
È per questo che in queste persone non può e non deve essere alimentato il “controllo” bensì la fiducia. Fiducia nella possibilità di rilassarsi senza perdersi; fiducia nella possibilità di ritrovarsi e rimettersi insieme (ritrovare le loro parti e rimetterle insieme) anche dopo che ci si è lasciati andare. Fiducia nella possibilità di “connettere” le cose, i pensieri, le sensazioni e le emozioni. Così potrà diventare possibile rilassarsi anche negli eventi sessuali e finalmente diventare possibile anche la scoperta del “piacere” della tenerezza. Un elemento diagnostico differenziale può infatti essere considerata anche la difficoltà ad abbandonarsi al rapporto sessuale e, come contrappunto e forse a conferma di questa affermazione, troviamo difficile notare schiette ed indubbie manifestazioni di panico nelle donne in gravidanza.

Terapia

Qualsiasi metodo utilizziamo nell’attuare una psicoterapia è influenzato dalle idee che abbiamo nei confronti del singolo. Nella favola di “Amore e Psiche”, la “fede” nel sentimento che Psiche prova nei confronti di Amore deve essere sufficiente e bastare perché il rapporto continui. La favola racconta della separazione che interviene quando Psiche cerca di “mettere gli occhi”, la coscienza, dove deve essere solo il cuore. Ma, contrariamente al luogo comune sapere, conoscere e amare non sono necessariamente antitetici; quando Amore diventa consapevole del proprio sentimento e smette di temere si ricongiunge all’amata. Allora forse il segreto sta nell’imparare a guardare dentro di sé piuttosto che nell’altro e riconoscere, nel senso di accettare, quello che ci troviamo così da scoprire che la fede è figlia della fiducia.
Nel DAP è questo il credito che maggiormente viene perseguito. Lavorando con persone affette da questo disturbo, si ha quasi sempre l’impressione che stiano cercando un sostegno, la forza di credere in loro stessi. A fronte degli impegni che si assumono, delle cose che fanno, delle disponibilità che mostrano, di fatto non credono in loro stessi. Forse proprio per questo s’impegnano al di là delle forze; per dimostrarsi diversi da come sentono di essere. È come fossero convinti che le cose fatte non abbiano il valore che meritano; che siano sempre cose di poco conto. Non hanno fiducia. Ciò che manca in queste persone è la fede e la fiducia e la fede e la fiducia testimoniano l’amore.
Sembrerà banale, ma è anche in questo senso che l’attacco di panico è la manifestazione di un problema di relazione. Queste persone sono in cerca, non dell’amore ma di essere amati; di qualcuno che le ami senza condizione, che gli faccia sentire e trovare la fede, che gli mostri e gli faccia sentire la fiducia. Di questi sentimenti hanno bisogno di appropriarsi e su questa dinamica psicologica nasce e si sviluppa la logica del gruppo di auto mutuo aiuto.
La domanda implicita del disturbo è in relazione alla dedizione, fiducia, gratuità, disponibilità; domande cui difficilmente può rispondere una figura professionale disponibile solo nelle ore di lavoro. Domande cui risponde in maniera più prossima invece un gruppo autogestito e autoformatosi.
Di questi bisogni è necessario tenere conto e un intervento, di qualunque tipo, rischia il fallimento se non si accompagna alla fiducia. È necessario che il terapeuta, lo psicologo e qualunque altro operatore credano nella possibilità che la persona che gli si rivolge ce la farà perché ha le qualità, le prerogative, gli attributi e le capacità per farcela a tenersi insieme, a rimanere “centrata” nelle avversità, a non perdersi, non disperdersi e non svuotarsi quando tanto e tante cose contemporaneamente richiederanno attenzione ed interventi.
Il DAP privilegia il corpo come teatro di manifestazione e penso che innanzi tutto del corpo dobbiamo accettare il dialogo. La mentalizzazione dovrebbe essere uno degli obiettivi terapeutici e una delle qualità di cui aver fiducia e a cui dare credito. La “mimetizzazione intellettuale e cognitiva” che è possibile osservare all’inizio di un’eventuale psicoterapia con queste persone, va considerata testimone degli sforzi che fanno per trovare la strada del “com-prendere”, del portare e mettere dentro di loro un certo modo di fare. È un tentativo di appropriarsi di un modo d’essere; un assecondamento che è un atto d’amore. Nella relazione devono però imparare a credere nell’esistenza di un modo d’essere personale che va cercato insieme piuttosto che creato; devono imparare ad abbandonarsi e lasciarsi andare ai movimenti spontanei del proprio organismo che in quest’allentamento potrà esprimersi in libertà e creatività. Devono essere rieducati alla fiducia in modo da smettere di aver paura di ciò che può accadere dentro di loro. Come Psiche dovranno imparare a “credere ciecamente” e perciò bisogna stare attenti a non illudere né deludere.
Un metodo terapeutico privilegiato per il DAP penso sia quello che prevede la possibilità di comprendere la problematica attraverso l’espressione corporea. Attraverso il corpo deve prevedere il suo esercizio così da metterne in evidenza le possibilità di modifica attraverso l’esperienza.
Noi siamo non solo le cose che pensiamo ma anche il modo in cui le pensiamo, siamo non solo il respiro e l’aria che ci entra dentro, ma anche il modo in cui prendiamo e utilizziamo quest’aria. Il “lasciarsi andare” e abbandonarsi, prima di diventare un’idea, è stata un’esperienza forse assimilabile anche a quella primaria di abbandonarsi nelle braccia di qualcuno; il panico prima di farsi parola ha invaso il corpo. Le “distonie neurovegetative” sono lo “scollamento” delle funzioni del nostro corpo che, sperimentate, testimoniano esperienzialmente l’incapacità a “tenersi insieme”.
Per questo penso che in psicoterapia debbano essere considerati un buon ausilio gli esercizi corporei che rimandano ai concetti di “equilibrio”, “coordinazione”, “centratura” e che propongono l’attenzione sensoriale privilegiando l’atteggiamento di accoglienza e fiducia. Rimane importante però non considerare questi esercizi alla stregua di semplici movimenti corporei; il loro senso va ricondotto alle valenze relazionali della relazione terapeutica perché si possano sperimentare, finalmente in una situazione “protetta” e accogliente, quegli eventi che sono diventati un’ombra persecutoria.

Riassunto
In questo articolo s’intende ipotizzare che gli eventi “attacchi di panico” siano generati dall’incapacità e impossibilità ad agire l’aggressività nei confronti delle prime persone significative. Dalla nascita l’Io si struttura rappresentando continui atti d’amore volti a queste persone. L’affetto, dato e ricevuto, diventa il collante di questa stessa struttura. È imperativo allora negare la rabbia; ma quando diventa impossibile, capita di poterla esprimere solo nei confronti di questo collante primario realizzando in tal modo diversi obiettivi. Nel DAP quindi, il controllo non è sempre e solo un’istanza super-egoica ma anche uno sforzo per “tenersi insieme”. [PAROLE CHIAVE: Disturbo da attacchi di panico, Tenersi insieme, integrazione/non-integrazione, fiducia, controllo]

Bibliografia

Goleman D., “Intelligenza emotiva, che cos’è, perché può renderci felici”, BUR, 2004, (pp. 126-127).
Ruggeri V., “L’esperienza estetica. Fondamenti psicofisiologici per un’educazione estetica”, Ed. Armando, 1997.
Ruggeri V., “L’identità in psicologia e teatro”, Ed. Magi, 2001.
Winnicott, D. W., “Dalla pediatria alla psicoanalisi”, Ed. Psycho Martinelli, 1991.

Giuseppe Ciardiello è Psicologo, Psicoterapeuta, Didatta alla S.I.A.R.

S.I.A.R. (Scuola Italiana di Analisi Reichiana) scuola di specializzazione in psicoterapia autorizzata dal Ministero dell’Università. Elabora ed approfondisce le intuizioni di Wilhelm Reich. Ha come riferimento chiave l’unità psicobiologica dell’individuo e usa una metodologia articolata su più livelli: Analisi del Carattere, Vegetoterapia Caratteroanalitica che opera con acting corporei, e Analisi del Carattere della Relazione.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

TRAUMA: DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS

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I criteri diagnostici per il Disturbo Post-traumatico da stress secondo il DSM-IV-TR* sono i seguenti:

  1. La persona è stata esposta ad un evento traumatico nel quale erano presenti entrambe le caratteristiche seguenti:
    1. la persona ha vissuto, ha assistito o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri
    2. la risposta della persona comprendeva paura intensa, sentimenti di impotenza, o di orrore.
      Nota: Nei bambini questo può essere espresso con comportamento disorganizzato o agitato.
  2. L’evento traumatico viene rivissuto persistentemente in uno (o più) dei seguenti modi:
    1. ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi dell’evento, che comprendono immagini, pensieri, o percezioni.
      Nota: Nei bambini piccoli si possono manifestare giochi ripetitivi in cui vengono espressi temi o aspetti riguardanti il trauma
    2. sogni spiacevoli ricorrenti dell’evento.
      Nota: Nei bambini possono essere presenti sogni spaventosi senza un contenuto riconoscibile
    3. agire o sentire come se l’evento traumatico si stesse ripresentando (ciò include sensazioni di rivivere l’esperienza, illusioni, allucinazioni, ed episodi dissociativi di flashback, compresi quelli che si manifestano al risveglio o in stato di intossicazione).
      Nota: Nei bambini piccoli possono manifestarsi rappresentazioni ripetitive specifiche del trauma
    4. disagio psicologico intenso all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico
    5. reattività fisiologica o esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico.
  3. Evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma e attenuazione della reattività generale (non presenti prima del trauma), come indicato da tre (o più) dei seguenti elementi:
    1. sforzi per evitare pensieri, sensazioni o conversazioni associate con il trauma
    2. sforzi per evitare attività, luoghi o persone che evocano ricordi del trauma
    3. incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma
    4. riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività significative
    5. sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri
    6. affettività ridotta (per es., incapacità di provare sentimenti di amore)
    7. sentimenti di diminuzione delle prospettive future (per es. aspettarsi di non poter avere una carriera, un matrimonio o dei figli o una normale durata della vita).
  4. Sintomi persistenti di aumentato arousal (non presenti prima del trauma), come indicato da almeno due dei seguenti elementi:
    1. difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno
    2. irritabilità o scoppi di collera
    3. difficoltà a concentrarsi
    4. ipervigilanza
    5. esagerate risposte di allarme.
  5. La durata del disturbo (sintomi ai Criteri B, C e D) è superiore a 1 mese.
  6. Il disturbo causa disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.

Specificare se:

  • Acuto: se la durata dei sintomi è inferiore a 3 mesi
  • Cronico: se la durata dei sintomi è 3 mesi o più.

Specificare se:

Ad esordio ritardato: se l’esordio dei sintomi avviene almeno 6 mesi dopo l’evento stressante.

 

American Psychiatric Association (2000). DSM-IV-TR Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders , Fourth Edition, Text Revision. Edizione Italiana: Masson, Milano.

 

Dott. Roberto Cavaliere

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CARATTERISTICHE DEL PENSIERO OSSESSIVO COMPULSIVO

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Di seguito elenco una serie di caratteristiche che contraddistingue il pensiero ossessivo nel doc da quello basato su un normale piano di realtà. Perché si possa parlare di pensiero ossessivo non è necessario che siano presenti tutti i punti elencati ma la maggior parte.

1)Il livello di ansia. Il livello di ansia che accompagna il pensiero ossessivo è decisamente maggiore rispetto a quello che accompagna altri pensieri, anche oggettivamente più importanti. Ad esempio il pensiero “potrei essere o diventare omosessuale ” comporta un livello d’ansia insopportabile mentre il pensiero “potrei avere un tumore ” comporta molto meno ansia, se non addirittura niente.

2)L’urgenza. Nel pensiero ossessivo si avverte l’urgenza di risolvere il dubbio, di avere una risposta certa e inconfutabile senza poter aspettare un solo minuto.

3)Il meccanismo. Le risposte ai propri dubbi non bastano mai, suscitando spesso ulteriori dubbi e ricercando, quindi ulteriori risposte. Dubbi e ricerca di risposte formano un circolo vizioso che non si ferma quasi mai.

4)Vergogna. Spesso ci si vergogna a raccontare le proprie paure agli altri nel timore che le troverebbero ridicole e prive di fondamento

5)Pensieri intrusivi. Pensieri intrusivi che s’impongono anche improvvisamente sono un chiaro segno di doc

6) Immagini intrusive. Anche immagini intrusive che s’impongono anche improvvisamente sono un chiaro segno di doc

7) Attenzione selettiva. Nel pensiero ossessivo la propria attenzione è attirata, principalmente, da tutto ciò che è attinente al pensiero ossessivo stesso. Ad esempio se è presente l’ossessione di essere omosessuale la propria attenzione sarà attirata da tutto ciò che ha attinenza con l’omosessualità.

8)Comparsa improvvisa. Fino al giorno prima del pensiero ossessivo adesso presente, lo stesso non procurava nessun ansia o disagio.

9)Il dubbio se sia doc. Se è presente il dubbio che sia doc allora è doc. Il doc può travestirsi da realtà ma la realtà non può travestirsi da doc. Conseguentemente se si ha il dubbio di essere omosessuali e si pensa che possa essere un doc, non si è omosessuali.

10)Uso di termini ricorrenti. La persona affetta da doc usa frasi e termini ricorrenti per descrivere i propri pensieri come: “Io sto ingannando me e gli altri “, “Non so, non sono sicuro, come faccio a saperlo, come faccio ad essere sicuro” ecc..

 

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IL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO

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Criteri diagnostici per il Disturbo Ossessivo Compulsivo secondo il DSM IV

  1. Ossessioni o Compulsioni

Ossessioni come definite da 1) 2), 3) e 4):

pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti, in qualche momento nel corso del disturbo, come intrusivi o inappropriati, e che causano ansia o disagio marcati;

i pensieri, gli impulsi o le immagini non sono semplicemente eccessive preoccupazioni per i problemi della vita reale;

la persona tenta di ignorare o di sopprimere tali pensieri, impulsi o immagini o di neutralizzarli con altri pensieri o azioni;

la persona riconosce che i pensieri, gli impulsi, o le immagini ossessivi sono un prodotto della propria mente e non imposti dall’esterno come nell’inserzione del pensiero).

Compulsioni come definite da 1)e 2):

comportamenti ripetitivi (per es., lavarsi le mani, riordinare, controllare), o azioni mentali (per es., pregare, contare, ripetere parole mentalmente) che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta ad un’ossessione, o secondo regole che devono essere applicate rigidamente;

i comportamenti o le azioni mentali sono volti a prevenire o ridurre il disagio, o a prevenire alcuni eventi o situazioni temuti; comunque questi comportamenti o azioni mentali non sono collegati in modo realistico con ciò che sono designati a neutralizzare o a prevenire, oppure sono chiaramente eccessivi.

  1. In qualche momento nel corso del disturbo la persona ha riconosciuto che le ossessioni o le compulsioni sono eccessive o irragionevoli. Nota Questo non si applica ai bambini.
  2. Le ossessioni o compulsioni causano disagio marcato, fanno consumare tempo (più di 1 ora al giorno), o interferiscono significativamente con le normali abitudini della persona, con il funzionamento lavorativo (o scolastico), o con le attività o relazioni sociali usuali
  3. Se è presente un altro disturbo di Asse I, il contenuto delle ossessioni o delle compulsioni non è limitato ad esso (per es., preoccupazione per il cibo in presenza di un Disturbo dell’Alimentazione; tirarsi i capelli in presenza di Tricotillomania; preoccupazione per il proprio aspetto nel Disturbo da Dismorfismo Corporeo; preoccupazione riguardante le sostanze nei Disturbi da Uso di Sostanze; preoccupazione di avere una grave malattia in presenza di Ipocondria; preoccupazione riguardante desideri o fantasie sessuali in presenza di una Parafilia; o ruminazioni di colpa in presenza di un Disturbo Depressivo Maggiore).
  4. Il disturbo non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es., una droga di abuso, un farmaco) o di una condizione medica generale.

Specificare se:

Con Scarso Insight: se per la maggior parte del tempo, durante l’episodio attuale, la persona non riconosce che le ossessioni e compulsioni sono eccessive o irragionevoli.

Le ossessioni più frequenti

Preoccupazione eccessiva per sporcizia, germi, urina, feci

Paura intensa delle infezioni

Immagini sessuali perverse

Paura di farsi del male o di far del male ad altri

Paura di provocare un evento negativo

Pensieri persistenti relativi a colori, numeri

Superstizioni

Preoccupazione intensa per quanto concerne moralità. religione, valori

Paura di dire qualcosa di osceno e/o offensivo

Immagini violente

Estrema preoccupazione per ordine, disposizione simmetrica delle cose

Le compulsioni più frequenti

Lavarsi le mani farsi la doccia, in modo ripetitivo e ritualizzato

Pulire oggetti, mobili in modo eccessivamente prolungato

Controllare ripetutamente elettrodomestici, luci, serattature, gas

Scrivere o leggere lo stesso testo più volte

Contare il numero di vocali/sillabe di un paragrafo prima e dopo la lettura

Ripetere certi movimenti, alzarsi in un certo modo, fare le scale ecc

Controllare eventuali danni a persone o cose

Contare un numero indefinito di volte

Necessità di dire o di fare cose per essere rassicurati

 

Dott. Roberto Cavaliere

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DISTURBI DELL’ADATTAMENTO: REAZIONE AD UN EVENTO LUTTUOSO O STRESSANTE

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Nel DSM-IV i disturbi dell’adattamento sono definiti come “sintomi emozionali o comportamentali clinicamente significativi” che si sviluppano “in risposta a uno o più fattori stressanti psicosociali identificabili”.

I sin­tomi devono manifestarsi entro 3 mesi dall’inizio del fatto­re stressante.

La reazione deve essere sproporzionata ri­spetto alla natura dello stress oppure vi deve essere una si­gnificativa compromissione del funzionamento sociale o la­vorativo.

Non si deve porre diagnosi di disturbo dell’adatta­mento se la reazione soddisfa i criteri per un altro specifico disturbo d’ansia o dell’umore .

I sintomi del disturbo di solito si risolvono entro 6 mesi, benché possano durare più a lungo se prodotti da un fattore stressante cronico o che abbia conseguenze persi­stenti. Pertanto, i disturbi dell’adattamento sono reazioni disadattative di breve durata a ciò che si può vivere come una calamità personale, ma che in termini psichiatrici si definisce fattore stressante .

DIAGNOSI

Sebbene per definizione i disturbi dell’adattamento siano conseguenti a un fattore stressante, non sempre i sintomi iniziano immediatamente. Secondo il DSM possono tra­scorrere fino a tre mesi tra il fattore stressante e l’insorgen­za dei sintomi e non sempre questi ultimi recedono appena cessa il fattore stressante. Se il fattore stressante persiste, il disturbo può diventare cronico .

Può manifestarsi a qualsia­si età e i suoi sintomi variano considerevolmente; negli adul­ti sono più comuni gli aspetti depressivi, ansiosi o misti .

Il quadro clinico del disturbo dell’adattamento può va­riare notevolmente. Il DSM-IV elenca diversi tipi di disturbo dell’adattamento:

1) Sviluppo di sintomi emozionali e comportamentali in risposta a uno o più fattori stressanti che si manifestano entro 3 mesi dall’inizio del fattore, o dei fattori stressanti.

2) Questi sintomi o comportamenti sono clinicamente significativi come evidenziato da uno o l’altro dei seguenti:

(a) grave disagio che va al di là di quanto prevedibile in base all’esposizione al fattore stressante

(b) compromissione significativa del funzionamento sociale o lavorativo (o scolastico)

3) Una volta che il fattore stressante (o le sue conseguenze) son superati, ì sintomi non persistono per più di altrì 6 mesi.

Il Disturbo di Adattamento può essere:

Acuto : se l’alterazione dura per, meno di 6 mesi

Cronico : se l’alterazione dura per 6 mesi o più

I disturbi dell’adattamento sono codificati in base al sottotipo:

Con umore depresso

Con ansia

Con ansia e umore depresso misti

Con alterazione della condotta

Con alterazione mista dell’emotività e della condotta

La prognosi complessiva del disturbo dell’adattamento è ge­neralmente favorevole con un trattamento appropriato. La maggior parte dei pazienti torna al livello di funzionamento precedente entro 3 mesi.

 

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