LA SINDROME DI PROCUSTE: CHI DENIGRA I SUCCESSI ALTRUI

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Il mito greco di Procuste narra che questo personaggio era un locandiere che gestiva una taverna fra le colline di Attica. Lì, offriva alloggio ai viandanti, nascondendo la sua vera natura, tutt’altro che amichevole.

Procuste possedeva un letto dove invitava tutti i viaggiatori a coricarsi. Durante la notte, quando i malcapitati dormivano, ne approfittava per imbavagliarli e legarli. Se la vittima era più alta e piedi, mani e testa le sporgevano dal letto, procedeva a tagliarli. Se la persona era più bassa, la stirava, rompendole le ossa per far quadrare le misure.

Questo personaggio oscuro perpetrò le sue azioni macabre per anni, finché non giunse un uomo molto speciale: Teseo. Come sappiamo già, questo eroe aveva acquisito fama per aver affrontato il Minotauro dell’isola di Creta e per esser diventato in seguito il re di Atene. Si narra che, quando Teseo scoprì ciò che quel sadico faceva di notte, decise di sottoporre Procuste allo stesso supplizio che imponeva a tutte le sue vittime.

Da allora, si è diffuso un avvertimento a titolo di proverbio che recita quanto segue:
“Fa’ attenzione, ci sono persone che, quando vedono che hai idee diverse o che sei più brillante di loro, non ci pensano due volte a metterti sul letto di Procuste”

Chi è affetto da sindrome di Procuste ha un’invidia aggressiva celata nei confronti degli altri in ambito affettivo, sportivo, politico o lavorativo.

Quando si trovano di fronte ad una persona brillante, intraprendente, creativa e in grado di superarli in più di un aspetto, non esitano a escogitare mille stratagemmi e vili sotterfugi per annullarla, umiliarla e relegarla in un angolo dove smetta di essere “un rischio” e/o dove non può intaccare il loro sentirsi inferiori.
Finchè, come nel mito, non arriva il Teseo che punisce il Procuste della situazione, Teseo può essere la persona stessa che è vittima e ribalta il suo ruolo.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

LA DIPENDENZA SESSUALE E’ UN DISTURBO MENTALE

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L’Oms ha annunciato che la dipendenza da rapporti sessuali rientra tra i disordini di tipo mentale. Infatti il disordine sessuale compulsivo è entrato a far parte della lista internazionale delle malattie appena aggiornata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). L’elenco in questione è stato aggiornato più precisamente a giugno ed è un documento di primaria importanza per medici e studiosi che vogliano aiutare i pazienti con dei seri problemi.

In base a quanto afferma l’Oms, questa tipologia di dipendenza per essere tale deve creare disturbi importanti alla vita della persona.

Il paziente affetto da questa problematica non riesce a controllare i propri impulsi [VIDEO] che sono intensi e ripetitivi, ma deve per forza di cose dar ‘sfogo’ ai sui desideri. L’attività sessuale diventa così di fondamentale importanza, tanto da portare il paziente a far trascurare il proprio stato di salute, i propri interessi ed il lavoro.

Per essere diagnosticato come un disturbo, l’evento deve avere una durata di almeno sei mesi. Bisogna specificare che la problematica non dipende dalla quantità di persone con cui si hanno rapporti sessuali o da quante volte lo si fa, ma piuttosto da quanta pressione faccia questo desiderio sulla propria vita tanto da arrivare a rovinare anche le interazione interpersonali.

Non tutti sono però concordi sul fatto che questa tipologia di comportamento rientri nella categoria di disturbi mentali.

Secondo alcuni esperti infatti, non sussistono sufficienti prove scientifiche [VIDEO] che dimostrino quanto affermato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Alcuni credono che la dipendenza dal sesso sia un disturbo autonomo, altri credono invece che la problematica possa essere molto seria come la dipendenza dal gioco. A livello nazione, non sussistono ancora ricerchi che affermino quante siano le persone che soffrono di tale disturbo.

In base a delle indagine sia regionali che locali, è però emerso che la dipendenza sessuale potrebbe interessare il 5% della popolazione. Ciò vuol dire che esistono più persone che combattono con tale problematica rispetto a quanti soffrono di disturbi come la schizofrenia o il gioco d’azzardo patologico. Nel corso degli ultimi anni sicuramente si avranno dei dati più precisi al riguardo.

Dott. Roberto Cavaliere

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OVERTHINKING: LA TENDENZA A PENSARE E RIMURGINARE TROPPO

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L’overthinking è la tendenza a rimurginare e pensare troppo ed è negativo per tutti. A spiegarlo sono gli studi di Susan Nolen-Hoeksema, Capo del Dipartimento di Psicologia presso l’Università di Yale, scomparsa nel 2013, che del fenomeno overthinking aveva fatto il centro delle sue ricerche.

Se sei donna capita più di frequente: secondo l’autrice del libro Women Who Think Too Much: How to Break Free of Overthinking and Reclaim Your Life, Donne che pensano troppo (come scappare dall’overthinking e riprendere in mano la tua vita) il pensiero ruminativo costituisce un fattore di rischio nel mantenimento della depressione.

Il lavoro di Susan Nolen-Hoeksema, che se n’è andata all’età di 53 anni in seguito a un intervento chirurgico, si era concentrato sulle differenze di genere nella depressione, e le conseguenze che i nostri pensieri e le emozioni possono avere nello stato di benessere complessivo della persona.

La malattia non è uguale per donne e uomini non solo poiché viene affrontata in modo diverso, bensì in quanto è il modo in cui affrontiamo la nostra vita emotiva e le difficoltà del quotidiano ciò che apre prospettive differenti.

Uomini e donne vivono l’essere vulnerabile in modo diverso e oggi la medicina di genere si interroga sulla possibilità di realizzare percorsi di cura che tengano conto della persona in tutti i suoi aspetti, sesso compreso, un tema che per molto tempo è stato trascurato e reso forzatamente “neutro”. Ma che cosa significa pensare troppo?

Quando ci focalizziamo sulle cause e l’analisi del problema non stiamo attuando un’azione di problem solving, cioè… non stiamo risolvendo in nessun modo il problema. Parlando di depressione maschile, il dottor Gianluigi Mansi, Responsabile dell’Unità di Psichiatria e Riabilitazione Psichiatrica presso gli Istituti Clinici Zucchi di Monza, racconta un fenomeno che capita di vivere a molti, soprattutto uomini padri di famiglia: per la sindrome del pescatore quando usciamo in mare affrontando le tempeste del quotidiano non possiamo tornare a mani vuote.

È il senso di responsabilità che ci fa stare all’erta. Come spiegano gli esperti, l’ansia entro certi limiti è positiva perché è una forma di attenzione, ci spinge a interrogarci e dare il meglio, pretendere di più, vedere i segnali, buttarci nella competizione. Tuttavia, l’esistenza è fatta da una serie di bivi e strade che si incrociano, sentieri che si perdono, fermate mancate, deviazioni e lavori in corso: non possiamo ridurre la nostra felicità all’idea che ci sia una strada giusta da percorrere.

In fondo, la vita non ha una meta, se non il bagaglio di esperienza che impariamo nel viaggio: un viaggiare che non arriva da nessuna parte e invece è esplorazione, curiosità verso il percorso, cadute e nuove corse.

“Se quella volta….. ”: quante volte l’hai detto o pensato? Quando ragioniamo con “avessi… fatto, detto scelto” rimaniamo bloccati nel tempo passato senza trovare nuove soluzioni per risolvere il presente. È demoralizzante e frustrante torturarsi pensando alle scelte che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto. Inoltre, è semplicemente falso: sei lì dove ti trovi, accettarlo è il primo passo per vedere e affrontare la realtà.

L’auto-riflessione può avere una funzione costruttiva, tuttavia spesso accade di analizzare una situazione di disagio concentrandosi sulle cause: questo aspetto è positivo solo fino a quando ti serve a mettere in evidenza lati che non avevi considerato e far emergere le tue emozioni profonde. Il rischio? A causa della tua precisione e profondità di analisi continuerai a ripetere (a te stesso e agli altri!) e raccontare la stessa situazione, concentrandoti sul problema e su quello che ti fa stare male.

STOP! Abbiamo bisogno di dare una tregua ai pensieri. Secondo Susan Nolen-Hoeksema è sempre più frequente che, durante una semplice pausa, le persone si sentano all’improvviso invase da un’ondata di preoccupazioni, pensieri e emozioni che scorrono come un fiume incontrollato e impossibile da arginare: ecco perché coltivare nuovi stili di pensiero e inziare a rallentare consapevolmente la tendenza a rimuginare significa imparare, poco a poco, a svuotare la mente.

Una mente che pensa troppo è un sabotaggio per la nostra creatività e ostacola la nostra capacità di essere nel momento presente. Il risultato? Quando ci portiamo dietro un carico di pensieri sempre più pesante finiamo per occupare tutto lo spaziodisponibile. Al contrario, fare vuoto e liberare la mente è acquistare lucidità, diventare più presenti, come animali dotati di un istinto ancestrale che ci permette di essere qui e ora, fronteggiando gli eventuali pericoli senza combattere contro vecchi fantasmi. Non solo una mente più fluida e leggera, ma la capacità di rispondere alle situazioni in modo più flessibile, dinamico e adeguato.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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TEST SULLO SHOPPING COMPULSIVO

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1) Quanto frequentemente acquista cose che non usa?

Sempre

Spesso

Mai

 

2) Quanto frequentemente acquista cose senza avere il denaro sufficiente?

Sempre

Spesso

Mai

 

3) Quanto spesso raccoglie oggetti che altri hanno gettato?

Sempre

Spesso

Mai

 

4) Quanto si sente in obbligo di acquistare qualcosa anche se non le occorre?

Sempre

Spesso

Mai

 

5) Quanto spesso si sente in ansia o depresso quando non acquista qualcosa che avrebbe veramente voluto?

Sempre

Spesso

Mai

 

6) Quanto spesso fa acquisti per sentirsi meglio?

Sempre

Spesso

Mai

 

7) Quanto spesso sente il bisogno di possedere assolutamente qualcosa che vede mentre sta facendo shopping?

Sempre

Spesso

Mai

 

8) Fino a che punto si sente angosciato o sconvolto per aver comprato ogetti superflui?

Sempre

Spesso

Mai

 

9) Lo shopping eccessivo le ha causato difficoltà finanziarie?

Sempre

Spesso

Mai

 

10) Lo shopping eccessivo ha interferito sulla sua vita sociale o sul suo lavoro?

Sempre

Spesso

Mai

 

11) Lei guarda nei rifiuti di altre persone per trovare cose da portare a casa?

Sempre

Spesso

Mai

 

12) Spende più tempo del voluto facendo shopping?

Sempre

Spesso

Mai

 

RISULTATI:

Sulle dodici domande si devono assegnare 2 punti per la prima risposta, 1 punto per la seconda e 0 punti per la terza.

da 0 a 6 punti: non si evidenziano problematiche

da 7 a 13 punti: siete uno shopper problematico

da 14 a 24 punti: potreste essere una persona con problemi di shopping compulsivo

 

Il risultato del test non è sufficiente per una diagnosi; si rimanda pertanto ad una valutazione con uno psicologo

TEST REPERITO SUL WEB

Dott. Roberto Cavaliere

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RIMUGINIO PATOLOGICO E CO-RUMINAZIONE

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“Co-rumination” è il nome che alcuni psicologi americani hanno coniato per indicare l’ossessiva abitudine delle donne, soprattutto le adolescenti, di parlare di tutto e per tanto tempo con le proprie amiche.

Il nome del disturbo è evocativo: ruminare infatti vuol dire masticare una seconda volta il cibo facendolo risalire dallo stomaco al rumine prima di digerirlo. Con le amiche, quindi, si tende a rimasticare per una seconda, terza, quarta volta (tendendo all’infinito) cio che è successo nella propria vita per poterlo digerire una volta per tutte. Ma è un’attitudine sana? Secondo gli psicologi non proprio. Non quando è eccessiva. Su questo oltre agli psicologi sarebbero d’accordo anche tutti gli uomini per i quali, pare, il rischio di co-rumination è sensibilmente più basso. Sono le adolescenti ad incappare più spesso in questo tipo di ossessione e dipendenza dal “parere dell’amica”. “L’adolescenza è il periodo in cui per le ragazze esistono solo le amicizie e il rapporto con i pari; tendenzialmente tutti gli adolescenti preferiscono passare ore al telefono a parlare con i propri amici per poi ammutolirsi all’ora di cena quando mamma e papà chiedono come è andata la giornata”, sottolinea Amanda Rose, la psicologa che ha coniato il termine “co-rumination” e che ha rilasciato un’interessante intervista al New York Times.

“Il punto è che a volte questo atteggiamento sconfina nella dipendenza e nella perdita di contatto con la realtà che per tutti, ma in particolar modo per gli adolescenti, può essere molto pericolosa e può compromettere una normale socialità”, continua la Rose. “In questo senso è importante il ruolo di mediazione di un adulto, che nei casi normali è uno o entrambi i genitori; talvolta però è necessario il parere di un esperto”, aggiunge la Rose. “Per le donne adulte il discorso non è poi molto diverso; la tendenza a parlare tanto tra amiche è costituzionale. Sebbene non ci siano i rischi di commettere errori dettati dalla scarsa esperienza come per le più giovani, anche le donne adulte possono rimanere ingabbiate nei discorsi tra amiche e costruirsi una visione parziale e complicata del mondo”, conclude la Rose.

Dott. Roberto Cavaliere

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VIGORESSIA O COMPLESSO DI ADONE

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MITO DI ADONE Adone nacque dalla relazione di sua madre Mirra con il nonno Cinira. Mirra era una fanciulla che si innamorò di suo padre Cinira. Mirra era disperata, e un giorno pensò persino di suicidarsi, ma la vecchia nutrice la fermò e dopo averla a lungo interrogata la vecchia riuscì a capire il dramma di Mirra e le promise un incontro d’amore con il padre. Durante i festeggiamenti in onore di Cerere, la madre della ragazza aveva fatto un voto di castità che le impediva di andare a letto con il marito. La nutrice allora propose a Cinira di accoppiarsi con una giovane vergine. C’era però una condizione posta dalla ragazza, quella di non farsi mai vedere. Tutto andò bene e padre e figlia si accoppiarono per nove notti di seguito, Mirra ne uscirà d’altronde incinta. Una notte Cinira spinto dalla curiosità guardò la sua giovane amante e si accorse che era sua figlia. Spinto ora dalla rabbia, prese una spada e la inseguì per tutta la casa e i boschi vicini. Mirra chiese aiuto agli Dei, che la trasformarono in un albero. Dopo nove mesi si aprì la corteccia dell’albero e ne uscì un bambino: Adone.

Adone fu raccolto da Afrodite che lo consegnò a Persefone, il quale se lo tenne. Con gli anni Adone divenne uno splendido ragazzo, di cui si innamorarono tutte le donne. Di lui si innamorarono persino Afrodite e Persefone che diedero vita ad una disputa che giunse all’orecchio di Zeus. Zeus decise che la disputa la chiarissero le muse che decisero: Adone resterà 4 mesi con Afrodite, 4 mesi con Persefone, e 4 mesi con chi vorrà lui. Afrodite indossò la cintura della seduzione che faceva innamorare chiunque, e convinse Adone a passare con lei i quattro mesi di sua pertinenza. Persefone si recò da Ares che fuori dalla rabbia si mutò in un cinghiale e durante una partita di caccia uccise Adone. Si dice che Afrodite versò tante lacrime quante erano le gocce di sangue che uscivano dal corpo del suo amato, e da ogni lacrima nasceva poi un fiore. In quei giorni furono visti lunghissimi cortei di donne vagare per i boschi, perché erano molte le donne che si erano innamorate vedendo Adone.


La vigoressia o complesso di Adone è un ossessiva attenzione per la propria forma fisica e lo sviluppo muscolare che colpisce sopratutto i maschi tra i 25 e i 35 anni , seguiti da quelli tra i 18 e i 24 anni., dediti ad una intensa attività fisica.
Sebbene l’attività fisica sia uno dei pilastri importanti per mantenere uno stato di buona salute sia fisica che mentale, come in ogni cosa, se viene praticata in eccesso, può convertirsi in un’ossessione e pregiudicare la salute.

Il culto e l’attenzione per il corpo nel senso di vedersi bene e non tanto sentirsi bene ha portato molti giovani a sviluppare condotte ossessive e compulsive come si riscontrano nella bulimia e nell’anoressia generalmente interessanti le donne. Al contrario di quello che accade alle ra gazze anoressiche, che si vedono grasse anche se pesano meno di 40 chili, gli uomini che soffrono di vigoressia (o sindrome di Adone) si percepiscono sempre come troppo magri, poco muscolosi.

Le caratteristiche principali dei soggetti affetti sono:

– trascorrere ore e ore in palestra, sottoponendosi ad esercizi di potenziamento muscolare,

– scrutarsi continuamente allo specchio per valutare lo sviluppo dei singoli      muscoli,

– sottoporsi a diete iperproteiche, pesarsi in continuazione e utilizzare  integratori e, nei casi più gravi, farmaci anabolizzanti.

La difficoltà a procurarsi farmaci anabolizzanti obbliga a ricorrere al mercato nero, dove queste sostanze, oltre ad essere di per se dannose, sono spesso prodotte senza alcuna garanzia sanitaria.

Questo non infrequentemente porta ad investire discrete somme in denaro, creandosi spesso problemi economici.

In contrasto con il loro aspetto fisico eccessivamente muscoloso, il vigoressico continua ad essere insoddisfatto dei propri muscoli che continua a vedere gracili e flaccidi.

Ai problemi di tipo psicologico, quali bassa autostima, isolamento sociale, stato depressivo si aggiungono problemi fisici derivanti da un’alimentazione sbilanciata, troppo ricca di proteine, che può, se prolungata per molto tempo, portare ad alterazioni della funzione renale, problemi ossei ed articolari derivati dagli eccessivi sforzi muscolari e da un’alimentazione povera di calcio per la quasi totale abolizione di latticini, problemi di impotenza derivanti dall’uso di anabolizzanti.

La cosa difficile può essere riuscire a far comprendere a chi soffre di vigoressia che questi eccessi sono il sintomo di una profonda insicurezza. Per uscirne, può essere d’ aiuto un percorso di psicoterapia unitamente all’intervento del medico, che prescriverà gli esami da fare e le eventuali terapie.

Da un punto di vista più strettamente medico segnaliamo che la vigoressia fu identificata nel 1993 da Pope HG Jr, Katz DL, Hudson JI in un articolo dal titolo “Anorexia nervosa and “reverse anorexia”. Il termine reverse anorexia fu proposto in considerazione del fatto che, con modalità uguali e contrarie all’anoressia, chi soffre di questo disturbo continua a vedersi gracile e smilzo nonostante abbia una muscolatura fuori dal comune.
Il disordine fu denominato più tardi dagli stessi autori dismorfia muscolare, e come tale potreste trovarlo citato. Divulgativamente Pope ha chiamato il disturbo Complesso di Adone in un libro uscito nel 2000.
La catalogazione diagnostica è incerta: fra la dismorfofobia, i disturbi alimentari non altrimenti specificati (NAS) e il disturbo ossessivo-compulsivo.

LEGGI ED ASCOLTA L’INTERVISTA RADIOFONICA AL DOTT. CAVALIERE SU RADIO1 DEL 10/6/2008

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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VOMITING

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Il vomiting è una forma compensativa tipica delle patologie del comportamento alimentare con tratti misti anoressico-bulimici. Consiste nel rituale segreto del vomito (auto-indotto) dopo avere consumato un pasto. Si tratta di un tipo di anoressia mascherata, e sostanzialmente manifesta un simile disagio con un opposto rapporto con il cibo.
Il vomiting è una pratica che tende ad evolversi, trasformandosi da episodio eccezionale in pratica abituale (quasi di dipendenza); il meccanismo, che dovrebbe essere naturale e funzionale in determinati casi di sofferenza organica, viene talmente compromesso da arrivare al punto da produrre il vomiting con facilità. Per questo motivo, all’inizio il vomito è indotto e solo in momenti successivi diventa spontaneo.
Un elemento per distinguere una persona “vomitatrice” o potenziale, da una persona anoressica è il modo in cui parla del cibo. In generale la persona anoressica non ama parlare del cibo, è un argomento che tenta sempre di schivare perché le provoca disturbo psichico. Il cibo rappresenta per la persona anoressica qualcosa di negativo e non si soffermerà mai a parlarvi di quello che mangia, di come mangia, delle sue possibili preferenze culinarie, perché sono sempre sensazioni di disgusto. Nei casi più gravi la persona anoressica finisce ospedalizzata perché non riesce a consumare nemmeno il minimo indispensabile in termini di cibo, per garantire una condizione di vita appena sufficiente, sia dal punto di vista plastico, sia dal punto di vista energetico. La persona con sindrome da vomito, al contrario, vi parlerà del cibo come se parlasse di qualche cosa di molto piacevole, con gusto e non negherà di indicare quali sono i cibi che preferisce.

 

Dott. Roberto Cavaliere

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SINDROME DI PINOCCHIO: IL BUGIARDO PATOLOGICO

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Non sono infastidito dal fatto che tu mi abbia mentito, sono infastidito perché d’ora in poi non posso più crederti.
(Friedrich Nietzsche)

Chi è bugiardo patologico, affetto dalla cosidetta sindrome di pinocchio, manifesta un vero e proprio disagio psicologico, di cui tende a escluderne la gravità, fino ad arrivare a non riconoscerlo neanche. Ciò causa molta sofferenza a sé stesso ed agli altri.

Le principali caratteristiche del bugiardo patologico sono:

  • Mentono gratuitamente, anche se non è necessario
  • Sono impazienti
  • Sono manipolativi nei confronti degli altri
  • Sono seduttivi e disinibiti
  • Sono intolleranti alle critiche
  • Pretendono perché è tutto dovuto loro
  • Non provano nessun rimorso
  • Sono incapaci di relazioni affettive mature

Il comportamento di chi “subisce” un bugiardo psicologico prevede tre strategie in tre tempi diversi:

  • Non tollerare assolutamente le bugie, anzi bisogna smascherarle sistematicamente, affrontandone l’onere di farlo, senza nessuna indulgenza.
  • Chiedere al bugiardo patologico l’auto-riconoscimento del proprio stato patologico ed invitarlo a chiedere un aiuto esterno per combatterne cause e sintomatologia.
  • Nel caso che le prime due strategie non siano accettate, prendere in considerazione l’opportunità di “abbandonare” il bugiardo patologico. Spesso questa si rivela l’unica strategia efficace nei confronti di chi è affetto da Sindrome di Pinocchio. Infatti il bugiardo patologico non accetta di rimanere solo.

Dal punto di vista clinico il bugiardo patologico può essere affetto da disturbo istrionico di personalità che è caratterizzato da un tipico quadro pervasivo di emotività eccessiva, ricerca di attenzione, ed appaiono a prima vista attivi, interattivi e disinibiti.

Per essere diagnosticato come disturbo il DSM IV prevede che deve manifestarsi in una varietà di contesti con la presenza di almeno cinque dei seguenti sintomi:

  1. la persona è a disagio in situazioni nelle quali non è al centro dell’attenzione
  2. l’interazione con gli altri è spesso caratterizzata da comportamento sessualmente seducente o provocante
  3. manifesta un’espressione delle emozioni rapidamente mutevole e superficiale
  4. costantemente utilizza l’aspetto fisico per attirare l’attenzione su di sé
  5. lo stile dell’eloquio è eccessivamente impressionistico e privo di dettagli
  6. mostra autodrammatizzazione, teatralità, ed espressione esagerata delle emozioni
  7. è suggestionabile, cioè, facilmente influenzato dagli altri e dalle circostanze
  8. considera le relazioni più intime di quanto non siano realmente.

 

Consulenza

Trilly Età: 35 Buongiorno, sono sposata da 7 anni, e ho 2 meravigliosi bambini, ma mio marito è un bugiardo patologico, non posso credere a nulla di quello che mi dice, siano esse cose importanti o banalità prive di importanza, non riesco più a fidarmi di lui e questo ha messo in forte crisi il nostro matrimonio. Vorrei riuscire ad aiutarlo, ma non so proprio come, ho provato con la calma, a spiegargli che per me, e per i bambini, la sincerità è importante, ma nulla, ho provato ad arrabbiarmi e a minacciarlo di lasciarlo e neanche questo è servito.Vorrei provare a trovare uno specialista, ma penso che non ci andrebbe, magari raccontandomi che in realtà ci va.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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per contatti e consulenze private (anche telefoniche o via Skype= tel.320-8573502 o  email:cavalierer@iltuopsicologo.it

ORTORESSIA

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L’ortoressia (dal greco orthos -corretto- e orexis -appetito-) è una forma di attenzione eccessiva alle regole alimentari, alla scelta del cibo e alle sue caratteristiche. Può essere dovuta ad una paura, a volte maniacale, di ingrassare o di non essere in perfetta salute, e conduce proprio, di norma, a un risultato opposto con conseguenze negative sul sistema nervoso, avvertite con difficoltà dal soggetto colpito e in modo evidente da chi lo circonda.

È classificata come disturbo dell’alimentazione, ma non ancora ufficialmente riconosciuta dal mondo psichiatrico. È stata descritta per la prima volta da Steve Bratman nel 1997, dietologo che si autodefinisce ex-ortoressico e che ha formulato un questionario allo scopo di identificare questa psicopatologia.

La psicologia tende a dare sempre più peso a questa forma di mania per le regole eccessive, rivolte in particolare al cibo, ritenendo che si stia diffondendo silenziosamente e coinvolga in maggior misura individui di sesso femminile.

Sono stati riconosciuti diversi livelli di ortoressia, a partire da forme più lievi e transitorie fino ad arrivare a situazioni quasi maniacali, ma non sono stati ancora canonizzati in termini clinici.

In primo luogo l’ortoressia è un problema sociale, che impedisce il soggetto colpito di avere rapporti equilibrati con l’esterno, in particolare con il partner, creando un meccanismo circolare di insoddisfazione che alimenta il problema stesso.

In secondo luogo l’ortoressico cambia a poco a poco stile di vita, oppure si isola in un proprio stile standardizzato e dettato esclusivamente da regole precise e imprescindibili, difendendosi da chi non comprenda le sue scelte, non condivida in pieno le sue idee e in genere lo irrida o lo contraddica; vive in uno stato di ansia che “supera” con la convinzione che le sue scelte siano assolutamente le uniche “giuste”.

L’ortoressico in genere non è dotato di una buona informazione né di una grande competenza nei campi in cui decide le proprie regole, ma si basa più sulle sue deduzioni e sul “sentito dire” che possa coincidere con le proprie idee; si annoia o rifugge una maggiore cultura o un confronto che gli consenta di capire le vere cause dei problemi; ritiene giusto solo ciò che capisce e talvolta capisce solo teorie semplicistiche. Questa comprensione gli dà, però, la forza di schierarsi “anche contro un premio Nobel”, anzi la scienza ufficiale è spesso vista come qualcosa di irrisorio, soprattutto nei casi in cui confuti le sue “fondatissime” teorie.

Anche quando il soggetto è culturalmente elevato (come Bratman), preferisce rinnegare ciò che ha appreso perché nella semplicità di poche regole trova un’illusoria serenità e un’apparente pace. Questo atteggiamento psicologico porta a manifestare una spiccata incapacità di trovare piacere, nel cibo in particolare, e spesso anche nella sfera sessuale.

Nei casi più importanti, laddove la patologia diventa maniacale, la conclusione del soggetto arriva frequentemente ad essere “tutto dipende dal cibo”.

Le cause portanti di questa malattia della psiche sono da ricercarsi nei ritmi di vita forzati della società moderna e dai modelli di bellezza e salute sempre più rivolti al consumismo piuttosto che a una reale attenzione per l’individuo. In particolare per i soggetti di sesso femminile, le scale di valutazione del rapporto salute-bellezza-autostima vengono spesso mescolate e stravolte, risultando spesso più importante apparire belle che essere davvero in salute.

Il soggetto ortoressico ricade ripetutamente in una sorta di circolo vizioso, nel quale a fronte di una forte insoddisfazione personale, egli cerca di ristabilire il proprio ordine e la propria autostima ricercando e attuando regole eccessivamente rigide, che, se trasgredite, comportano un senso di colpa molto forte che porta di riflesso ad inasprire ulteriormente le regole stesse (soprattutto in ambito alimentare) trovando un’apparente realizzazione proprio in quegli aspetti della vita dove le regole vedono il loro maggiore sviluppo (regime alimentare, lavoro, business, competizioni, studio) e tralasciando quasi totalmente la propria sfera privata, personale e affettiva.

Questo porta il soggetto ad incontrare difficoltà nell’appagare se stesso e i propri sensi,imponendosi talvolta persino di provare disgusto per cibi, che in realtà appagherebbero il suo palato, solo perché convinto che quegli stessi cibi possano essere dannosi per la sua salute o portare all’aumento di peso.

Come per l’alimentazione, allo stesso modo i rapporti interpersonali e di coppia vengono spesso incrinati qualora il soggetto sia convinto che i rapporti medesimi non siano più adatti o convenienti, anche qualora non vi sia un rilevante motivo.

Questa condizione porta l’ortoressico a non riuscire a provare un reale appagamento personale (se non a tratti) ed a percepire uno stato d’insofferenza e delusione che lo portano spesso a sentirsi più insicuro e in ogni caso a ricadere nel ciclo di insoddisfazione. Il soggetto tende, in questo modo, ad isolarsi ed a fidarsi tendenzialmente solo più delle proprie forze e delle proprie regole.

In ultima analisi il ragionamento compiuto dall’ortoressico si ripercuote in una mera incapacità di vivere il proprio presente, poiché il futuro diviene un’ansia continua di prevenzione per ogni aspetto personale e alimentare, mentre il passato si connota in una raffigurazione costante di occasioni mancate, nostalgie e rimpianti.

L’ortoressia è quindi una patologia che si manifesta con evidenza nelle abitudini alimentari, ma che riguarda in realtà l’insieme della nostra sfera personale.

La terapia dell’ortoressia si rifà alla stessa per gli altri disturbi del comportamento alimentare, prevedendo un approccio globale (psicoterapia + seguimento dietologico) da parte di terapeuti esperti in tale campo.

Effettua il test sull’Ortoressia

NOTIZIE SULL’ORTORESSIA

Ortoressia, malattia del cibo sano – Quando mangiare è un problema

Una nuova ossessione alimentare, analoga a bulimia e anoressia

MILANO – Nelle verdure ci sono i pesticidi, lo zucchero provoca la carie, il burro e la carne rossa aumentano il colesterolo. Si potrebbe fare un elenco interminabile di divieti alimentari, una lista da cui non si salverebbe alcun tipo di cibo. Ma bisogna far attenzione a non esagerare per non cadere nell”ortoressia nervosa”, un nuovo tipo di disordine alimentare: persone ossessionate dalla ricerca di un’alimentazione sana.

Portando all’estremo i dettami di un’alimentazione salutistica, gli “ortoressici” arrivano a sviluppare proprie regole alimentari sempre più specifiche e fanno di tutto per restarvi fedeli, costringendosi a pianificare i pasti anche con diversi giorni di anticipo. Quando escono, tendono a portare con sè un “kit di sopravvivenza” con i loro cibi, perché non si fidano a mangiare piatti preparati da altri per timore di grassi e altre sostanze. E se “sgarrano” dalla dieta, i sensi di colpa diventano insostenibili.

L’ossessione della qualità. L’allarme è stato lanciato oggi dall’European Food Information Council (Eufic), una organizzazione no-profit le cui informazioni sono garantite da un comitato scientifico formato da ricercatori istituzionali e universitari di vari paesi europei. L’Eufic, nel descrivere il fenomeno, cita Steve Bratman, che ha descritto per primo l’ortoressia nel 1997. Secondo lo scienziato, questa malattia induce un comportamento simile a quello delle persone che soffrono di anoressia o di bulimia nervosa. Con l’unica differenza che gli anoressici e i bulimici si preoccupano della quantità del loro cibo, gli ortoressici della qualità.

Troppe informazioni nuociono alla salute. Ma c’è già più di un sospetto che si tratti di una nuova malattia della società globalizzata, dove tutti i cittadini sono continuamente sottoposti a un bombardamento di informazioni su ciò che fa bene o fa male alla salute. Il cibo oggi fa paura e la diffusione degli alimenti biologici ha aumentato la complessità delle decisioni da prendere su cosa mangiare. Bettina Isenschmid, consulente per i disordini alimentari presso lo “Hopital de l’Isle” di Berna, ritiene che questa attenzione ai cibi “buoni” e “cattivi” sia problematica e alimenti un rapporto più nevrotico con il cibo nella moderna società occidentale.

Per Bratman, è difficile curare e guarire queste persone, perché hanno la ferma convinzione di agire in modo corretto, sono estremamente sicuri delle loro convinzioni, e si sentono superiori alle persone che non hanno un simile autocontrollo. “Una persona che si riempie le giornate mangiando tofu e biscotti a base di quinoa – ha spiegato lo studioso – si può sentire altrettanto generosa e pia di chi ha dedicato tutta la vita ad aiutare i senzatetto”.FONTE www.repubblica.it

Cibo sano, l’ ossessione diventa malattia

I dietisti: a Milano un disturbo alimentare su quattro provocato dall’ ortoressia MODA IMPORTATA DAGLI USA Il «fondamentalismo dietetico» è nato negli Usa, dove nel 2003 è stata registrata la prima vittima ufficiale dell’ ortoressia PIÙ A RISCHIO LE RAGAZZE Come l’ anoressia e la bulimia, anche l’ ortoressia colpisce in prevalenza le adolescenti, spesso scontente del proprio corpo

Il pesce è da mettere al bando perché contiene il mercurio, lo zucchero favorisce le carie, dopo la mucca pazza prendere in considerazione la carne è impensabile, lo stesso vale per il pollo a rischio aviaria, i salumi vanno eliminati dalla dieta per evitare i brufoli, le verdure sono da scegliere accuratamente chissà mai che contengano pesticidi, e guai, in cucina, a usare il burro, alleato del colesterolo. I maniaci dei cibi sani ragionano (più o meno) così. Con il rischio di diventare vittime di un nuovo disturbo alimentare. L’ ultima ossessione a tavola si chiama ortoressia (dal greco orthòs orexis, corretto appetito). È la fissazione per un’ alimentazione genuina e naturale. Studiata a partire dal 1997 da Steven Bratman, dietologo americano autore del libro Health Food Junkies, l’ idea fissa di nutrirsi in modo salutare adesso ha contagiato anche a Milano. È una mania pericolosa: «Un regime alimentare salutista portato all’ estremo – dicono gli esperti – è dannoso per la salute». Chi soffre di anoressia e bulimia rivolge la sua attenzione alla quantità del cibo: l’ ortoressico è concentrato sulla qualità. Prima di mettere nel carrello della spesa un prodotto controlla mille volte la sua origine sull’ etichetta, i cibi geneticamente modificati gli fanno ovviamente orrore. Negli Stati Uniti il fondamentalismo dietetico ha già fatto una vittima: Kate Finn, scomparsa nel 2003. Il suo è considerato il primo caso ufficiale di morte per ortoressia. Ravizza Simona – Corriere della Sera

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

MOBBING

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Il mobbing è, un insieme di comportamenti violenti (abusi psicologici, angherie, vessazioni, demansionamento, emarginazione, umiliazioni, maldicenze, etc.) perpetrati da parte di superiori e/o colleghi nei confronti di un lavoratore, prolungato nel tempo e lesivo della dignità personale e professionale nonché della salute psicofisica dello stesso. I singoli atteggiamenti molesti (o emulativi) non raggiungono necessariamente la soglia del reato né debbono essere di per sé illegittimi, ma nell’insieme producono danneggiamenti plurioffensivi anche gravi con conseguenze sul patrimonio della vittima, la sua salute, la sua esistenza.

Più in generale, il termine indica i comportamenti violenti che un gruppo (sociale, familiare, animale) rivolge ad un suo membro.

Il termine mobbing è stato coniato agli inizi degli anni settanta dall’etologo Konrad Lorenz per descrivere un particolare comportamento di alcune specie animali che circondano in gruppo un proprio simile e lo assalgono rumorosamente per allontanarlo dal branco. In etologia, particolarmente in ornitologia, mobbing indica anche il comportamento di gruppi di uccelli di piccola taglia nell’atto di respingere un rapace loro predatore.

Questa pratica è spesso condotta con il fine di indurre la vittima ad abbandonare da sé il lavoro, senza quindi ricorrere al licenziamento (che potrebbe causare imbarazzo all’azienda) o per ritorsione a seguito di comportamenti non condivisi (ad esempio, denuncia ai superiori o all’esterno di irregolarità sul posto di lavoro), o per il rifiuto della vittima di sottostare a proposte o richieste immorali (sessuali, di eseguire operazioni contrarie a divieti deontologici o etici, etc.) o illegali.

Per potersi parlare di mobbing, l’attività persecutoria deve durare più di 6 mesi e deve essere funzionale alla espulsione del lavoratore, causandogli una serie di ripercussioni psico-fisiche che spesso sfociano in specifiche malattie (disturbo da disadattamento lavorativo, disturbo post-traumatico da stress) ad andamento cronico.

Si distingue, nella prassi, fra mobbing gerarchico e mobbing ambientale; nel primo caso gli abusi sono commessi da superiori gerarchici della vittima, nel secondo caso sono i colleghi della vittima ad isolarla, a privarla apertamente della ordinaria collaborazione, dell’usuale dialogo e del rispetto.

Si parla di mobbing verticale quando un superiore per licenziare un dipendente in particolare perché antipatico, poco competente e produttivo; e di mobbing orizzontale[citazione necessaria] quando in ufficio un collega non è accettato per i diversi interessi sportivi oppure perché diversamente abile. Il mobbing strategico si ha quando l’attività vessatoria e dequalificante tende ad espellere il lavoratore, per far posto ad un altro lavoratore (di solito in posizioni di dirigenza o apicali)

In ogni caso, il mobbing è riferibile ad un complesso, sistematico e duraturo comportamento del datore di lavoro, che deve essere esaminato in tutti i suoi aspetti e nella loro conseguenzialità, per creare un coacervo di stimoli lesivi che non può né deve essere frazionato o spezzettato in tanti singoli episodi, ciascuno dei quali aventi un proprio effetto sanitario ovvero giuridico. Anche perché si è soliti ammantare con solide motivazioni anche gli atti peggiori, sì da dare ad essi una parvenza di legittimità.[1] Gli anzidetti concetti sono importanti per la dimostrazione giudiziale del mobbing.

La pratica del mobbing sul posto di lavoro

La pratica del mobbing consiste nel vessare il dipendente o il collega di lavoro con diversi metodi di violenza psicologica o addirittura fisica. Ad esempio: sottrazione ingiustificata di incarichi o della postazione di lavoro, dequalificazione delle mansioni a compiti banali (fare fotocopie, ricevere telefonate, compiti insignificanti, dequalificanti o con scarsa autonomia decisionale) così da rendere umiliante il prosieguo del lavoro; rimproveri e richiami, espressi in privato ed in pubblico anche per banalità; dotare il lavoratore di attrezzature di lavoro di scarsa qualità o obsolete, arredi scomodi, ambienti male illuminati; interrompere il flusso di informazioni necessario per l’attività (chiusura della casella di posta elettronica, restrizioni sull’accesso a Internet); continue visite fiscali in caso malattia (e spesso al ritorno al lavoro, la vittima trova la scrivania sgombra). Insomma, un sistematico processo di “cancellazione” del lavoratore condotto con la progressiva preclusione di mezzi e relazioni interpersonali indispensabili allo svolgimento di una normale attività lavorativa.

Secondo L’INAIL che per prima in Italia ha definito il mobbing lavorativo qualificandolo come costrittività organizzativa le possibili azioni traumatiche possono riguardare la marginalizzazione dalla attività lavorativa, lo svuotamento delle mansioni, la mancata assegnazione dei compiti lavorativi o degli strumenti di lavoro, i ripetuti trasferimenti ingiustificati, la prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto o di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali condizioni di handicap psico-fisici, l’impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie, la inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro, l’esclusione reiterata da iniziative formative, il controllo esasperato ed eccessivo.

E’ quindi chiaro che il mobbing non è una malattia ma rappresenta il termine per indicare la complessiva attività ostile posta in essere solitamente da un datore di lavoro (pubblico o privato, da solo o in combutta) per demansionare il lavoratore, isolarlo e obbligarlo al trasferimento o alle dimissioni.

Conseguenze sulla salute

Il mobbing non è una malattia ma può esserne la causa. La patologia psichiatrica più frequentemente associata è il disturbo dell’adattamento; esso si compone di una variegata sintomatologia ansioso-depressiva reattiva all’evento stressogeno. Fra le conseguenze rientrano la perdita d’autostima, depressione, insonnia, isolamento. Il mobbing è causa di cefalea, annebbiamenti della vista, tremore, tachicardia, sudorazione fredda, gastrite, dermatosi. Le conseguenze maggiori sono disturbi della socialità, quindi, nevrosi, depressione, isolamento sociale e, suicidio in un numero non trascurabile di casi.

1) Gennai, Stefano (6.12.2006). Bossing, mobbing, straining nel pubblico impiego. Altalex. vai al link dell’articolo

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